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Razze bovine pregiate: conosciamole meglio
Sostenibilità
28/06/2023
4 min.
Sostenibilità

Le principali razze bovine sono Chianina, Marchigiana, Maremmana, Romagnola e Podolica.  

Conosciamo meglio queste razze! 

 

La Chianina è la terza razza italiana da carne per diffusione e, probabilmente, la più famosa nel mondo. Essa ha origini antichissime ed è allevata soprattutto in Umbria, Toscana e Lazio e, come la Marchigiana, era in origine una razza da lavoro che si è progressivamente specializzata nella produzione della carne. L’elemento distintivo della Chianina è soprattutto costituito dal suo gigantismo che la rende, probabilmente, la razza bovina più grande al mondo. Basti pensare che un maschio adulto può raggiungere 1700 Kg di peso e un’altezza di 200 centimetri al garrese. Dal punto di vista nutrizionale, la carne di Chianina è considerata la carne bovina più sana, magra e digeribile tra tutte le razze europee, grazie anche al suo ottimo rapporto tra acidi grassi saturi ed insaturi. 

 

La Marchigiana è la seconda razza italiana da carne per diffusione, allevata nella regione d’origine e lungo la dorsale appenninica verso il mezzogiorno. Come la Chianina, la Marchigiana era in origine una razza da lavoro, poi selezionata per la produzione della carne. Presenta caratteristiche morfologiche che la rendono simile alla Chianina: mantello bianco/grigio, stazza imponente e piccole corna. Gli arti sono corti, a favore di una più sviluppata massa muscolare. La carne marchigiana ha una significativa infiltrazione di grasso, il che la rende particolarmente gustosa. 

 

La Maremmana è diffusa in Toscana e nel Lazio. Come la Podolica, questa razza, più che specializzata da carne nel senso classico del termine, è considerata come razza rustica, adatta agli ambienti difficili. Ha infatti, una spiccata attitudine al pascolo che, considerata la zona di allevamento, avviene in pasturi che sorgono su substrati salini per l’antica presenza di aree paludose ormai bonificate. Si cibano di erbe spontanee che conferisce alla carne maremmana una sapidità davvero intensa. 

 

La Romagnola è la quarta razza italiana da carne, è diffusa nella regione di origine e, tra le razze podoliche, è quella che probabilmente presenta la migliore attitudine alla produzione della carne. Anche in questo caso si tratta di una razza originariamente da lavoro, per il quale era molto apprezzata, che successivamente si è specializzata nella produzione della carne. In comune con la Chianina ha alcune caratteristiche morfologiche come la dimensione ridotta della testa, gli arti sottili e il manto bianco in età adulta, ma non la mole. I bovini maschi adulti, infatti, arrivano ad un peso massimo di 1000-1200 Kg e un’altezza al garrese di circa 170 centimetri. Una caratteristica peculiare è un buon accrescimento naturale che non rende necessaria alcuna integrazione alimentare. La carne presenta una lieve marezzatura e una sapidità intensa. 

 

La Podolica deriva, probabilmente, il suo nome dalla zona di origine, la Podolia, situata nell’attuale Ucraina portata in Italia probabilmente nel 452 d.C. dagli Unni. E’ un animale rustico, con grande capacità di adattamento a terreni difficili, impervi, montuosi e collinari caratterizzato da un manto grigio. Le sue carni particolarmente gustose anche se non naturalmente morbide, hanno reso possibile un particolare impegno in merito alla valorizzazione della razza che è entrata a pieno titolo tra le razze italiane di pregio.  

 

Tre tra le razze sopra descritte, Chianina, Marchigiana e Romagnola, rientrano nella certificazione IGP del “vitellone bianco dell’appennino centrale”, che è ad oggi, l’unico marchio di qualità per le carni bovine fresche Italiane approvato dalla Comunità Europea. 

La denominazione di “Vitellone Bianco” deriva dal manto di questi bovini, appunto di colore bianco, caratteristica peculiare che permette ai bovini di ben tollerare le radiazioni solari tipiche degli ambienti pascolativi montuosi, sebbene queste tre razze siano allevate principalmente in stalla, per via delle loro elevate esigenze nutritive che ne limitano l’adattabilità ai pascoli difficili di montagna. 

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Redazione
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Carne rossa e dieta dimagrante? Sì grazie!
Nutrizione
21/06/2023
4 min.
Nutrizione

Tutti parlano di diete in Italia, una nazione dove le statistiche sul sovrappeso e l’obesità oggigiorno sono preoccupanti. Purtroppo, non ci sono solo gli esperti che parlano a riguardo, ma anche coloro che millantano di esserlo, generando confusione in un mondo dove i falsi miti alimentari sono all’ordine del giorno. Ed è così che dilagano le diete più strane, quelle che non hanno alcun fondamento scientifico. Si cerca sempre una scorciatoia, un alimento miracoloso che faccia dimagrire o un alimento “cattivo” da condannare, un’intolleranza infondata da cercare come causa dell’aumento di peso, che molto probabilmente è dato “solo” da un’alimentazione sregolata ed uno stile di vita sedentario.

Allora sarebbe più semplice includere un po’ di tutto nella propria alimentazione, favorendo gli alimenti freschi (cereali, verdure, legumi, carne e pesce) e limitando quelli ultraprocessati (prodotti pronti, snack, dolciumi, ecc…).

Pochi anni fa, la Harvard Medical School ha proposto un’iniziativa di educazione alimentare, disegnando il cosiddetto Healthy Eating Plate (1), cioè il piatto del mangiar sano. Questo rappresenta un piatto “ideale” perché offre alcune regole dietetiche di base che aiutano a comporre un pasto equilibrato. In sostanza, deve essere presente una fonte di carboidrati (che comprende cereali integrali come pasta e pane), una fonte di fibre (oltre che di vitamine e minerali) da frutta e verdura, nonché una fonte di proteine. Come tutti gli alimenti, anche le fonti proteiche vanno inserite in una dieta settimanale sana con buonsenso e senza eccessi, e la carne rossa non è da meno, essendo una valida fonte proteica, anche e ancor di più all’interno di una dieta dimagrante.

In merito al consumo di carne rossa e sovrappeso/obesità, i risultati di una recente metanalisi (2) estendono l’evidenza che il consumo di carne rossa non è associato al rischio di sovrappeso, così come non c’è associazione tra consumo di carne totale e obesità.

È ormai noto che le proteine della carne aiutano l’organismo a consumare più energia e favoriscono la sazietà più di altri nutrienti energetici. Infatti, le proteine sono il macronutriente che ha il maggiore impatto sulla termogenesi, ovvero sul processo di produzione di calore e di dispendio energetico dell’organismo. Le proteine richiedono fino al 30% in più di energia per essere digerite rispetto agli altri macronutrienti, producendo così un vantaggio metabolico.

La carne presenta alcune qualità che la rendono un ottimo alimento all’interno di una dieta dimagrante, tra cui l’alto valore biologico delle proteine e l’assenza di carboidrati, quindi il conseguente indice glicemico nullo.  Inoltre, contiene composti bioattivi (minerali tra cui calcio, zinco, rame e iodio, vitamine del gruppo B, carnitina e coenzima Q10) che stimolano il metabolismo.

Altro aspetto fondamentale, è rappresentato dal fatto che le proteine della carne sono tra le migliori nel promuovere la costruzione muscolare e quindi l’aumento della massa magra a scapito della massa grassa. A differenza delle proteine vegetali, che sono carenti di amminoacidi essenziali quali metionina, leucina e lisina (e questo limita il loro potere anabolico), le proteine animali sono ricche di tutti gli amminoacidi necessari alla costruzione delle proteine.

Questo è da tenere in considerazione quando si intraprende un percorso dimagrante. Dimagrire, infatti, non equivale al solo “perdere peso”, ma presuppone una riduzione della massa adiposa, favorendo al contempo il mantenimento della massa muscolare.

Rispetto alle diete a base di carboidrati, quelle ad alto contenuto proteico sono le più efficaci per aiutare le persone a perdere peso, perché migliorano accuratamente il senso di sazietà e controllano meglio l’appetito.

In conclusione, appare inutile inseguire l’ultima dieta del momento priva di alcun fondamento scientifico, le challenge che promettono di perdere 7 chili in 7 giorni e qualunque altra trovata commerciale. Accogliere e mettere in pratica le buone e sane abitudini è la scelta migliore anche per chi deve perdere peso, e tra queste non viene negata una buona bistecca di carne rossa.

1. Harvard T.H. Healthy Eating Plate. The Nutrition Source. Healthy Eating Plate | The Nutrition Source | Harvard T.H. Chan School of Public Health
2. Daneshzad E, Askari M, Moradi M, Ghorabi S, Rouzitalab T, Heshmati J, et al. (2021). Red meat, overweight and obesity: A systematic review and meta-analysis of observational studies. Clinical Nutrition ESPEN. 45, 66-74.
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Redazione
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Carne rossa e salute: come cuocerla al meglio
Nutrizione
16/06/2023
2 min.
Nutrizione

La carne rossa è un’importante fonte di proteine e di nutrienti essenziali, tra cui ferro, zinco e vitamina B12 

Per questo motivo è importante integrare correttamente questo alimento dalla dieta: un aspetto che ha un impatto sulla salute che spesso viene trascurato è la modalità di cottura della carne. 

Le alte temperature raggiunte durante la cottura possono favorire la produzione di sostanze nocive quali le ammine eterocicliche (o HCA, dall’inglese HeteroCyclic Amine) e di idrocarburi policiclici aromatici (IPA).  

Pertanto, al fine di consumare carne riducendo i rischi derivanti da alcune tipologie di cottura, è bene prestare la giusta attenzione alle modalità di cottura e limitare a rare occasioni le modalità di cottura più “aggressive” (temperature superiori a 150-180°C, tempi prolungati, esposizione diretta della carne alla fiamma) come il barbecue e la frittura, riducendo in maniera significativa l’apporto nella dieta di molecole ad attività potenzialmente nociva. 

Allo scopo di abbreviare i tempi di cottura sulla griglia, è consigliabile ad esempio effettuare una precottura nel forno. Altra accortezza: durante la cottura al barbecue, andrebbero puliti immediatamente i gocciolamenti di grasso e la carne dovrebbe essere girata frequentemente per evitare che si bruci, oppure cuocere la carne avvolta in fogli di alluminio, limitando il rischio di carbonizzazione.  

Utile anche bilanciare il pasto con verdure ricche in carotenoidi e antiossidanti, quali pomodori e carote. 

Ultima pratica utile: la marinatura. Marinare la carne prima di sottoporla a cottura utilizzando olio di oliva, vino, succo di limone, aglio e spezie può contrastare efficacemente la formazione di composti nocivi quali le ammine eterocicliche. 

Via libera, invece, alle modalità di cottura più delicate quali la cottura al vapore, la stufatura, la bollitura

McAfee AJ, McSorley EM, Cuskelly GJ, Moss BW, Wallace JM, Bonham MP, et al. (2009). Red meat consumption: an overview of the risks and benefits. Meat Science. 84(1): 1-13. doi: 10.1016/j.meatsci.2009.08.029.

WHO-IARC. (2015). IARC Monographs evaluate consumption of red meat and processed meat, 26 ottobre 2015.

Magkos F, Rasmussen SI, Hjorth MF, Asping S, Rosenkrans MI, Sjödin AM, et al. (2022). Unprocessed red meat in the dietary treatment of obesity: a randomized controlled trial of beef supplementation during weight maintenance after successful weight loss. American Journal of Clinical Nutrition. 116(6): 1820-1830. doi: 10.1093/ajcn/nqac152.

Lee JG, Kim SY, Moon JS, Kim SH, Kang DH, Yoon HJ. (2015). Effects of grilling procedures on levels of polycyclic aromatic hydrocarbons in grilled meats. Food Chemistry. 199: 632-638. doi: 10.1016/j.foodchem.2015.12.017.
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Redazione
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Il ferro non è tutto uguale: carne rossa vs spinaci di Popeye
Nutrizione
18/04/2023
4 min.
Nutrizione

Quante volte da bambini ci siamo sentiti dire “mangia gli spinaci che diventi forte”? Tante. E quante volte ci siamo conviti che fosse davvero così? Sempre. 

“Tutta colpa di Popeye”, più conosciuto come Braccio Di Ferro, il marinaio che trangugiava una latta di spinaci e, in un attimo, riempiva i suoi muscoli di forza.  

Ad oggi, fa sorridere pensare che tutta questa bufala sia in parte dovuta a un semplice errore tipografico in una tabella di composizione degli alimenti; è bastato, infatti, l’errore nel posizionamento di una virgola, ed ecco che gli spinaci, per diverso tempo, sono stati ritenuti un prezioso alimento in grado di apportare quantitativi di ferro notevoli, ben 10 volte superiori al loro reale contenuto 

Da lì, sono diversi gli imprenditori che hanno cavalcato l’onda di un valore nutrizionale stratosferico, creando un personaggio capace di contribuire all’impennata del consumo di spinaci (1). L’errore è stato poi corretto, ma ormai era troppo tardi per modificare l’associazione che si era creata nell’immaginario collettivo: spinaci = ferro. 

Qual è la verità sul ferro? 

Il ferro è presente in svariati alimenti, sia di origine animale che di origine vegetale, ma è bene sapere che il ferro non è tutto uguale.
Il ferro-eme, presente nell’emoglobina e nella mioglobina degli alimenti di origine animale (in primis della carne), viene assorbito come tale e in elevata percentuale, circa il 25%, indipendentemente dalla composizione della dieta.
Il ferro non-eme, costituito da sali ferrosi e ferrici, è contenuto negli alimenti di origine vegetale (come gli spinaci per l’appunto), ma presenta una percentuale di assorbimento molto più bassa, circa il 2-13%. Il suo assorbimento, inoltre, dipende dalla presenza nel pasto di altre sostanze riducendosi, ad esempio, quando introdotto assieme ad alimenti ricchi in calcio, un minerale davvero importante per la salute delle ossa.  

Ferro: ogni età ha il suo fabbisogno 

Il ferro ha l’importante compito di permettere il trasporto dell’ossigeno nell’organismo attraverso il sangue e il suo fabbisogno è particolarmente alto per le donne in età fertile. In Italia, inoltre, sembra che gli adolescenti e soprattutto le adolescenti siano un gruppo esposto a grave rischio di carenza di ferro 

È infatti importante sapere che, il fabbisogno di ferro non è uguale in tutte le età e si modifica nel corso della vita: 

– 11 mg nei lattanti; 

– 8 mg nei bambini fino ai 3 anni; 

– 11 mg dai 4 ai 6 anni; 

– 13 mg da 7 a 10 anni; 

– 10 mg nei maschi di 11-14 anni; 

– 13 mg nei maschi di 15-17 anni; 

– 10 mg nei maschi dai 18 anni in su;  

– 18 mg nelle femmine dagli 11 ai 59 anni; 

–  10 mg nelle femmine dai 60 anni in su; 

Particolare attenzione anche al periodo della gravidanza, in cui l’assunzione giornaliera di ferro deve essere pari a 27 mg (1). 

Come assumere ferro eme con la dieta?  

La carne di bovino è un’ottima fonte di ferro biodisponibile. Le carni rosse rappresentano, infatti, un alimento particolarmente efficace per la copertura dei fabbisogni. Oltre a fornire ferro eme, quindi facilmente assimilabile, aumentano l’assorbimento del ferro non eme, svolgendo quindi una importantissima funzione antianemica (delle diverse proprietà nutrizionali della carne rossa abbiamo parlato anche qui).  

Le parti del bovino più ricche di ferro sono le interiora: milza 42 mg, fegato 8.8 mg, rene 8 mg, cuore 4.6 mg, cervello 3.6 mg, lingua 2.8 mg (valori espressi su 100 g di prodotto) (2). Anche i tagli più comuni e conosciuti si difendono bene. Il filetto di vitello ne contiene ben 2.3 mg/100 g, la fesa di bovino adulto 1.8 mg, mentre i tagli posteriori di bovino adulto o vitellone ne hanno circa 1.6 mg (valori espressi su 100 g di prodotto) (2). 

Un buon piatto a base di carne di bovino può, quindi, essere una valida strategia per fare il pieno di ferro, anche in epoche delicate della vita, quali lo svezzamento e la gravidanza. Basterà adottare alcuni utili accorgimenti: carne ben cotta per le donne in gravidanza e tagli morbidi senza nervature per i più piccoli, da servire in piccoli pezzi, tagliati nel senso della lunghezza. 

1. Tufte, T. (2005). Entertainment-education in development communication. Media and Global Change, Rethinking Communication for Development, 159-174.

2. Società Italiana di Nutrizione Umana (SINU). (2014). Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana IV revisione. 

3. Consiglio per la Ricerca in agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria (CREA). (2019). Tabelle di composizione degli alimenti. AlimentiNUTrizione (2019). 
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Nutrimi
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Simposio internazionale COW IS VEG – I videointerventi dei relatori
Sostenibilità
03/10/2022
2 min.
Sostenibilità

Durante la sessione “CARNE ROSSA TRA SOSTENIBILITÀ, NUTRIZIONE E FUTURO”, un parterre di esperti internazionali ha presentato dati inediti per rivelare il reale impatto della carne rossa su ambiente e nutrizione, affrontando il tema sotto diversi punti di vista, tutti di grande attualità: dagli obiettivi di sviluppo sostenibile, ai cambiamenti climatici, alla malnutrizione, passando per l’evoluzione dell’uomo.

 

Il contributo globale della zootecnia agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile: opportunità e sfide

ANNE MOTTET, Livestock Development Officer, United Nations Food and Agriculture Organization – FAO

 

Cambiamento climatico e allevamenti: come la gestione del metano può rendere il bovino parte della soluzione

FRANK MITLOEHNER, Professore e Air Quality Extension Specialist, UC Davis –  USA

 

Dieta ed evoluzione: come il consumo di carne ci ha resi umani

MIKI BEN-DOR, Ricercatore in nutrizione e diete ancestrali, Dipartimento di Archeologia, Tel Aviv University – Israele

 

Mangiare meno carne non salverà il pianeta: l’importanza di una corretta nutrizione

FREDERIC LEROY, Professore nel campo della Scienza dell’Alimentazione, Vrije Universiteit Brussel – Belgio

 

Si è parlato inoltre del VALORE SOCIALE ED ECONOMICO DEL SETTORE BOVINO IN ITALIA, con GIUSEPPE PULINA, Professore Ordinario di Etica e Sostenibilità delle produzioni animali presso l’Università di Sassari, che ha presentato nuovi dati per mostrare la distintività dell’allevamento bovino italiano, in particolare in termini di impatto ambientale.

 

Allargando lo sguardo a livello più globale, il prof. Pulina ha infine evidenziato come la zootecnia in Europa sia estremamente più virtuosa che altrove, e il termine “intensivo” acquisisce un significato del tutto nuovo e di valore.

 

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Redazione
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Efficienza e sostenibilità: il settore della carne bovina parte della soluzione per vincere la sfida globale dell’alimentazione
Sostenibilità
30/09/2022
7 min.
Sostenibilità

Il Simposio Scientifico Internazionale “Cow is Veg – Il ruolo dei ruminanti in una dieta sostenibile” presenta dati inediti che rivelano il reale impatto della carne rossa su ambiente e nutrizione.

 

Roma, 29 settembre 2022 –  La sfida globale del settore agroalimentare per i prossimi anni consisterà nel garantire cibo sicuro e prodotto in maniera sostenibile a una popolazione crescente, con le previsioni che parlano di 9,7 miliardi di persone entro il 2050. Se per qualcuno la soluzione per conciliare disponibilità alimentare e ambiente dovrebbe essere smettere di produrre e consumare carne, secondo le stime FAO, invece, in uno scenario sostenibile, sarà necessario garantire un aumento medio del 30% della disponibilità di alimenti di origine animale, soprattutto nei paesi in via di sviluppo (Fonte: FAO. 2018. The future of food and agriculture). E proprio sulla sinergia fra nuove sfide della food security e sostenibilità, si è tenuto oggi a Roma il simposio “Cow is Veg – Il ruolo dei ruminanti in una dieta sostenibile” organizzato da Assocarni in collaborazione con Coldiretti, durante il quale un parterre di scienziati internazionali si è confrontato su questo tema.

 

In particolare sull’importanza di guardare al sistema zootecnico sotto differenti aspetti – ambientale, ma anche economico e sociale – è intervenuto Maurizio Martina, Vicedirettore Generale della FAO, che ha sottolineato l’apporto di queste filiere “alla grande sfida della sostenibilità” e ha ribadito il valore di un approccio scientifico e ragionato al tema ricordando che nel mondo 1 miliardo e 300 milioni di persone vivono grazie al lavoro in zootecnia. E proprio nell’ottica di considerare le filiere zootecniche come parte di un nuovo equilibrio sostenibile, il Vicedirettore generale della Fao ha detto: “Sono molte le questioni importanti sui cui si può lavorare insieme: contro le emissioni, sulla qualità dei mangimi, sull’utilizzo dei terreni e dei suoli, per la selezione delle razze, sulla gestione dei reflui, per la circolarità integrale dei sistemi zootecnici. Temi concreti che aiutano a spostare in avanti l’equilibrio per renderlo sempre più sostenibile e più avanzato” E ha concluso Martina “In questo senso non abbiamo bisogno di approcci ideologici, ma di buone pratiche che ci facciano lavorare insieme”.

 

L’agricoltura, di cui la zootecnia è parte integrante, ha già risposto con i fatti sulla capacità di aumentare la produzione riducendo gli impatti: negli ultimi 30 anni il comparto agricolo ha sfamato quasi 2,5 miliardi di persone in più riducendo le emissioni pro-capite di circa il 20% (Fonte: Our World in Data).

Sul fronte del consumo di acqua e di suolo e della cosiddetta feed vs food competition, ad esempio, in questi anni sono emersi dati importanti capaci di fare chiarezza in un panorama informativo spesso inquinato da dannose fake news.

 

In un contesto come quello che si sta delineando – aumento della popolazione, aumento del reddito medio e contestuale aumento della richiesta di alimenti di origine animale –  la capacità dei ruminanti di convertire erba e vegetali ricchi in cellulosa in proteine, senza entrare in competizione con l’uomo, è un’opportunità unica per il settore zootecnico di contribuire alla food security con proteine ad alto valore biologico. Ma non solo, i ruminati si mostrano estremamente efficienti nella conversione delle proteine vegetali in proteine animali. Su questo Anne Mottet, Livestock Development Officer presso la FAO, intervenuta ai lavori della mattinata, ha affermato che “L’intero settore zootecnico mondiale consuma circa un terzo dei cereali che produciamo. Ma questa quota può essere ridotta. In particolare, i ruminati hanno un più efficiente indice di conversione proteica: sono in grado di produrre un chilo di proteine assumendo solo seicento grammi di proteine vegetali.  Anche per quanto riguarda il land use, il settore zootecnico globale utilizza circa 2,5 miliardi di ettari di suolo, il 77% dei quali sono praterie, per gran parte non coltivabili e quindi utilizzabili solo dagli animali al pascolo, che se riconvertite a colture creerebbero danni ai servizi ecosistemici.”

 

Se oggi la produzione e il consumo di carne sono dunque al centro di un dibattito pubblico spesso fortemente polarizzato che influenza la lettura dei dati riguardanti la salute e gli impatti ambientali, emergono in parallelo dati più che confortanti, che vedono gli allevamenti bovini come parte integrata della soluzione climatica. Come spiega il Prof. Frank Mitloehner, Air Quality specialist in Cooperative Extension presso il Dipartimento di Scienze Animali della UC Davis, “I bovini sono spesso etichettati erroneamente come un problema climatico, mentre in realtà rappresentano un’opportunità: gestendo al meglio le emissioni, soprattutto di metano, i bovini diventano parte della soluzione climatica. In alcune regioni, l’allevamento può raggiungere la neutralità climatica – il punto in cui non comporta ulteriore riscaldamento climatico – con riduzioni fattibili di metano, il tutto fornendo al contempo alimenti altamente nutrienti”.

 

Uno studio più attento delle emissioni di gas serra fa emergere, infatti, come anidride carbonica e metano non abbiano la stessa permanenza in atmosfera e lo stesso impatto sul clima. In particolare, il metano emesso naturalmente dai bovini, viene scomposto in atmosfera e riconvertito in CO2 nel giro di dieci anni per poi essere riassorbito dalle piante con la fotosintesi, rientrando nel naturale ciclo biogenico del carbonio. Invece la CO2 prodotta dai combustibili fossili si accumula e permane in atmosfera potenzialmente per mille anni. Agendo, quindi, sul contenimento delle emissioni di metano dei bovini si opererebbe un effettivo sequestro di carbonio in atmosfera, rendendo di fatto la zootecnia un settore attivo nella lotta al cambiamento climatico, in opposizione a quanto si ritiene erroneamente oggi.

 

La carne, inoltre, continua a rivestire un’importanza determinante dal punto di vista nutrizionale: evitare o ridurre eccessivamente l’assunzione di carne può rendere le diete meno equilibrate soprattutto per i giovani e le fasce di popolazione più fragili, tra cui le donne in età riproduttiva, gli anziani e le persone affette da patologie.

 

La carne, infatti, è un’importante fonte di proteine di alta qualità e di vari micronutrienti di cui si rilevano carenze a livello globale (anche presso gran parte delle popolazioni occidentali) come ferro, zinco e vitamina B12. Come riportato da Frederic Leroy, Professore nel campo della Scienza dell’Alimentazione presso la Vrije Universiteit Brussel, e relatore al simposio, “Nonostante si tratti dell’alimento che ha accompagnato l’evoluzione della specie umana costituito da proteine di qualità e micronutrienti altamente biodisponibili, l’assunzione di molti dei quali è peraltro limitata da parte della popolazione, spesso la carne viene ingiustamente inquadrata come una scelta alimentare non salutare. Al contrario, la carne dovrebbe essere considerata un alimento chiave per migliorare lo stato nutrizionale nell’ambito di una dieta sana, soprattutto per le popolazioni con esigenze nutrizionali elevate. Prescindere dal ruolo nutrizionale degli alimenti nel formulare raccomandazioni per un consumo meno impattante per l’ambiente rappresenta infatti un grave errore”, continua Leroy: “è assolutamente fondamentale tenere in considerazione e incorporare tali vantaggi nutrizionali anche nelle valutazioni di carattere ambientale, per consentire confronti e valutazioni equi”.

 

La valenza nutrizionale della carne rappresenta inoltre un importante retaggio evoluzionistico che caratterizza la nostra specie da oltre due milioni di anni. “Le evidenze circa il metabolismo indicano che gli esseri umani, evolutisi nel Paleolitico come ‘ipercarnivori’, sono ancora adattati a una dieta in cui i lipidi e le proteine, piuttosto che i carboidrati, offrono un contributo importante all’approvvigionamento energetico” ha dichiarato Miki Ben-Dor, Ricercatore in nutrizione e diete ancestrali presso il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Tel Aviv.

 

Alla luce di queste riflessioni, emerge chiaramente l’importanza di guardare con fiducia al settore zootecnico e alle sue evoluzioni in grado di contribuire positivamente all’auspicata neutralità climatica futura, così come è necessario cominciare a guardare ai bovini come a una risposta concreta e sostenibile alla crescente richiesta di proteine di alta qualità da parte della popolazione globale.

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Redazione
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Uomo e bovino: una storia che affonda le radici all’origine della civiltà.
Sostenibilità
20/06/2021
4 min.
Sostenibilità

Ci sono prodotti che sono espressione stessa di un territorio, di una storia condivisa, di una cultura. In Italia, questo è il caso della carne. E non solo perché la nostra penisola può vantare alcune delle carni più pregiate e conosciute in tutto il mondo, ma perché proprio nella pratica dell’allevamento risiede il seme della nostra civiltà e la storia ne è testimone, in un intreccio tra leggende e fonti documentali che definiscono la narrazione del rapporto fra uomo e animali dai suoi albori fino ai giorni nostri.

Allevatore fin dalla notte dei tempi

Le primissime testimonianze di allevamento risalgono già al 10.000 a.C., quando la figura del “cacciatore” iniziò progressivamente ad abbandonare arco e frecce e ad addomesticare gli animali più docili, ottenendo in questo modo le risorse che tradizionalmente reperiva abbattendo gli animali selvatici. Avere a disposizione in maniera più duratura e continuativa carne, pelli, uova e latte risultò molto più conveniente, determinando in modo irreversibile l’ascesa dell’allevamento, anche in funzione di una maggiore resa nella nascente agricoltura. Tra i primi animali addomesticati ci furono probabilmente ovini e caprini, seguiti da suini e bovini, a seconda della zona che si considerata: ad esempio, il bove è un animale di antichissima domesticazione per quanto riguarda l’area compresa tra Medio Oriente e India, mentre più recente per quella europea. Una delle prime aree dove l’allevamento venne “istituzionalizzato” fu sicuramente la Mesopotamia del 6.000 a.C. circa, così come l’Egitto dei faraoni, dove animali domestici come il toro venivano usati per le rappresentazioni delle divinità. In tutta la Mezzaluna Fertile durante il terzo e secondo millennio a.C. si verificò un intensificarsi non solo della pastorizia in sé, ma anche un progressivo affinamento della pratica armentizia, focalizzato soprattutto sulla selezione delle razze, al fine di ottenere esemplari sempre migliori. Non fu però solo il Vicino Oriente a custodire i primi germogli di una pratica destinata a durare nei millenni. Infatti, anche in Europa, seppur in tempi più recenti, nuclei geopolitici che spontaneamente si adoperarono nello sviluppo dell’allevamento, quali le popolazioni delle regioni affacciate sul Mediterraneo, storicamente le più ricettive nei confronti delle innovazioni provenienti da Oriente anche grazie all’interscambio culturale operato per secoli da Fenici e Greci.

Un nome, un destino

Il nome Italia trae origine da una tradizione classica che trova il suo epicentro geografico nell’estremità meridionale della Calabria, e solo con l’espansione romana il nome si diffuse capillarmente nel resto della penisola, per essere poi ufficializzato nel 42 a.C. da Ottaviano Augusto. Come afferma Carla Marcato, professoressa di Linguistica Italiana all’Università di Udine, la coniazione di “Italia” è incerta, in quanto si suppone derivi dal sostantivo Viteliu in lingua osca, o da vitluf, “vitello”, in lingua umbra, latinizzato poi in vitulus. Secondo altri studi, il termine Italia deriverebbe da un popolo pre-romano primigenio, gli Itali, che si sarebbero dati questo nome per celebrare l’antico uso di divinizzare l’animale totem del clan, il vitello, o in alternativa per definirsi “figli del toro”.

Quando la leggenda diventa realtà

Tutte le ricerche sull’origine del nome Italia convergono verso la certezza storica che, già prima dell’espansione romana, la nostra penisola fu sede di una diffusa attività agro-pastorale caratterizzata dalla prevalente a presenza dei bovini. Secondo lo storico romano Varrone, infatti, l’allevamento ricoprì un ruolo indispensabile anche molto tempo dopo l’introduzione dell’agricoltura, al punto tale che nella memoria legata alla fondazione di Roma, il contesto economico è sempre stato illustrato con forte valenza pastorale, associando i primi re leggendari a “professionisti dell’allevamento”. La stessa nascita di Roma potrebbe essere avvenuta in occasione della festa pastorale dei Palilia, dedicata a Pales, la dea dei pastori e della pastorizia. La figura del pastore ebbe la sua evoluzione nel corso dell’età repubblicana, durante la quale acquisirono rilevanza i patrimoni costituiti da greggi o mandrie di grandi dimensioni, e di conseguenza i loro proprietari divennero personaggi di fondamentale importanza sociale ed economica. Solo nella tarda Repubblica l’allevamento divenne un affare di competenza anche della classe equestre e senatoria. L’importanza dell’allevamento in epoca romana traspare anche grazie a Virgilio, il quale nelle Georgiche descrive i metodi migliori per governare e curare il bestiame di grossa e piccola taglia. Spicca qui la figura del pastore nordafricano, nobilitato dal paragone col legionario romano, che porta con sé tutto ciò che possiede: tenda, focolare, utensili, cane e armi. Serviranno le riforme dei Gracchi per far assestare all’agricoltura il primo vero e duro colpo nei confronti l’allevamento, che tuttavia riuscì comunque a rimanere uno dei pilastri sociali della penisola e a rifiorire, neanche troppo tempo dopo, con la riorganizzazione politica dell’Italia medievale.

A cura di
Giuseppe Pulina
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Cosa succederebbe se non ci fossero più allevamenti in Italia?
Sostenibilità
20/06/2021
6 min.
Sostenibilità

Concepire un mondo senza allevamenti è uno sforzo di immaginazione difficile, ma non impossibile. Le conseguenze potrebbero però alterare la realtà in modo radicale, intaccando un patrimonio economico, sociale e culturale fondamentale per il nostro Paese e minando un equilibrio ambientale e paesaggistico che si regge anche sulla presenza e l’azione dei ruminanti nelle aree geografiche in cui sono da sempre presenti.

Il bovino, perché è importante

La ricchezza che ci regalano i bovini deriva dalla loro capacità di trasformare alimenti che noi non potremmo mai utilizzare, perché ricchi in fibre indigeribili e poveri in principi nutrivi quali i foraggi, in una “montagna” di proteine e di micronutrienti indispensabili al nostro benessere e alla nostra salute. Inoltre, i bovini, in quanto ruminanti, sono capaci di “organicare” l’azoto trasformando molecole tossiche, quali i nitrati di cui sono ricchi i vegetali, in proteine nobili che ritroviamo poi nelle loro carni. Questo processo è possibile perché nel rumine-reticolo alberga una micro-popolazione di batteri, protozoi e funghi capaci di degradare la fibra dei foraggi, per noi totalmente indigeribile, e valorizzarne l’azoto: questi animali si sono evoluti introitando una sorta di brodo primordiale che, in assenza di ossigeno, non consuma completamente la sostanza organica, ma la trasforma a vantaggio dell’ospite che ne trae energia e composti azotati, principalmente proteine, di qualità di gran lunga migliore di quelli presenti nei foraggi ingeriti.

La ‘madre’ di molte filiere

Oltre ai preziosi prodotti principali, la carne e il latte, la cui mancata produzione peserebbe notevolmente sulle tasche degli italiani per l’aggravio dovuto alle importazioni, l’allevamento del bovino è una ricca fonte di co-prodotti e sottoprodotti quali pelle e organi interni che possono essere utilizzati per numerosi altri scopi e in settori diversi.

Ecco alcuni esempi:
– le ossa sono utilizzate per la produzione di mangimi per gli animali da compagnia, ma anche di farine proteiche, fertilizzanti, gelatina per uso alimentare;
– la pelle è utilizzata per la produzione di beni durevoli, ma ecologicamente sostenibili in quanto naturali al contrario dei derivati delle plastiche che devono essere smaltite, quali pellami e cuoio: vitello per articoli di lusso (scarpe, borsette, cinture, ecc), vitellone per settore automotive (sedili delle auto), protezioni per divani e cuoieria per foderare internamente le calzature;
– il grasso viene utilizzato nell’industria cosmetica e chimica (saponi), oltre che per uso zootecnico;
– le cartilagini sono impiegate per la produzione di prodotti alimentari addensanti, nonché per la formulazione di pet food e pet toys;
– le parti grasse bovine sono anche impiegate per la produzione di gelatine, utilizzate in ambito farmaceutico per la preparazione di film utili all’incapsulazione dei farmaci;
– il sangue bovino è impiegato per la produzione di fertilizzanti;
– i tessuti valvolari sono impiegati per la preparazione di dispositivi medici (valvole cardiache);
– le colature grasse, il contenuto ruminale e altri scarti sono utilizzati come fonti rinnovabili per la produzione di energia verde (biometano e calore);
– l’abomaso (l’ultimo dei quattro stomaci dei ruminanti), è impiegato dall’industria casearia per la produzione di caglio (l’unico coagulante permesso per la produzione di formaggi DOP quali, ad esempio, il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano);
Anche gli effluenti prodotti dagli animali sono utili perché impiegati come fertilizzanti agricoli (gli unici consentiti nell’agricoltura biologica) o come fonti di energia rinnovabile, determinando un notevole vantaggio ambientale rispetto alla situazione in cui concimi ed energia vengano prodotti per altre vie ‘convenzionali’.

Per favorire uno smaltimento ‘verde’ di liquami, deiezioni, rifiuti organici, sterpaglie ed altri vegetali provenienti dalle attività di allevamento, le aziende agricole hanno ormai dappertutto costruito piccoli impianti a biogas, i quali producono al tempo stesso energia pulita ed utile per l’auto-alimentazione dell’azienda. Inoltre, il digestato che residua dopo il processo di produzione energetica è un ottimo fertilizzante in quanto le parti altamente solubili delle deiezioni sono state fissate e gli odori sgradevoli, abbattuti. Da questo impiego intelligente degli effluenti zootecnici si ottiene, quindi, nuovo valore rappresentato dall’uso dei derivati delle biomasse (biogas e digestato), nonché dalla loro produzione ecosostenibile. Considerando il valore economico delle produzioni principali e quello di utilizzo di tutta la ‘produzione collaterale’ dell’allevamento (basta menzionare nuovamente l’industria calzaturiera e le pelletterie per farsene facilmente un’idea) diventa palese quanto questo comparto rappresenti una ‘fabbrica di valore’ totalmente ecosostenibile per il Paese e in generale per la società contemporanea.

Una perdita per la cultura

In Italia, la figura dell’allevatore ha accompagnato la storia dell’uomo fin dai suoi albori. Ne abbiamo già parlato qui. Ma non è tutto: l’allevatore, infatti, non è soltanto una persona che conosce i cicli produttivi e riproduttivi degli animali, che li seleziona, li cura, li custodisce e tramanda così un mestiere millenario; è anche colui che sa leggere segni e segnali che un allevamento genera continuamente per interpretarli non solo a proprio favore, ma anche a vantaggio dei propri animali. Il rapporto tra allevatore e ambiente, infatti, è strettissimo, non dissimile da quello che l’agricoltore ha con la propria terra.

La sensibilità e l’attenzione unica alla base di questa professione ha consentito agli allevatori italiani di selezionare e custodire le razze bovine che oggi conosciamo: grazie al loro operato millenario, il nostro Paese può vantare alcune delle più pregiate e rinomate etno-popolazioni, varietà genetiche strettamente legate a un territorio di cui sono diventate espressione. Se non protette e valorizzate, le razze locali sono soggette a forte erosione genetica, rischiando così di scomparire con conseguente grave danno per la perdita di biodiversità, per l’economia e per l’identità del posto.

Una perdita… per l’ambiente e il paesaggio!

In Italia, le razze locali svolgono un ruolo fondamentale per il paesaggio e per l’ambiente. La loro capacità di adattarsi a territori ostili, non utilizzabili convenientemente per le coltivazioni, fa sì che queste svolgano una vera e propria opera di “manutenzione” di queste aree, altrimenti destinate ad essere abbandonate e progressivamente a inselvatichirsi. A titolo di esempio, gli alpeggi e i pascoli montani del nord o le aree rurali in regioni quali la Calabria o la Sicilia, rischierebbero la desertificazione antropica senza l’allevamento delle razze locali.
Il ruolo dei bovini nel mantenimento del paesaggio rurale italiano è, poi, rilevante: con la loro presenza, modellano le forme di oltre 1/3 del territorio rurale, regalandoci il mosaico che caratterizza uno dei principali attrattori turistici del Bel Paese.
In definitiva, si può affermare che gli allevamenti hanno stretto un vero e proprio patto con la natura e con i suoi cicli, un equilibrio che potrebbe essere gravemente compromesso se anche solo uno dei tasselli che lo compongono venisse meno.

A cura di
Giuseppe Pulina