FAQ
Qual è il valore economico degli allevamenti in Italia?
Il settore delle carni genera in Italia un valore economico dell’ordine dei 30 miliardi di euro all’anno, rispetto ai circa 180 dell’intero settore alimentare ed ai 1.500 del PIL nazionale. Le tre filiere principali (avicolo, bovino e suino) generano un valore circa equivalente. Le differenze si trovano nell’analisi della bilancia commerciale: la filiera bovina importa il 40% circa del fabbisogno complessivo, la filiera avicola è pressoché neutra, la filiera dei salumi è caratterizzata soprattutto da esportazioni di prodotti finiti.
In un Paese che, come l’Italia, risente molto degli effetti della crisi globale, il ruolo economico della produzione di carne e di prodotti lattiero caseari da una parte costituisce la prima voce fra le principali produzioni agricole italiane, dall’altra riveste un ruolo importante in varie economie locali, che contribuiscono in modo non indifferente al totale nazionale. La pratica dell’allevamento rappresenta un’importante fonte di reddito anche nel resto del mondo. Secondo la FAO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura), nel mondo “il bestiame è fondamentale per il sostentamento di circa un miliardo di persone povere”, e dà lavoro a circa 1,3 miliardi di individui.
Etichettatura obbligatoria sul tipo di allevamento: cosa esiste oggi?
L’etichettatura delle carni, divenuta obbligatoria prima per la carne bovina nel 2000 e successivamente, nel 2013, per altre specie animali, è un sistema che impone al produttore di fornire informazioni al consumatore riguardo l’origine del prodotto che acquista.
Il primo esempio di informazioni articolate al consumatore riguarda l’etichettatura delle carni bovine, introdotta nel 2000 (Regolamento (CE) n. 1760/2000), che prevede l’obbligo di indicazione del luogo di nascita, allevamento, macellazione e sezionamento. Il mancato rispetto di tali norme è perseguibile penalmente.
Oggi le modalità di allevamento (al pascolo, semi-intensivo e in stalla) possono essere comunicate lungo tutta la filiera fino al consumatore finale tramite un disciplinare per l’etichettatura facoltativa delle carni approvato dalle competenti autorità sempre ai sensi del Reg. (CE) 1760/2000, e successive modifiche e integrazioni, e del decreto ministeriale 16 gennaio 2015. Si tratta di una certificazione regolamentata che segue sistemi analoghi a quelli previsti per i prodotti biologici. Il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (MIPAAF) è l’Autorità preposta a vigilare sulla veridicità e dimostrabilità delle informazioni che vengono trasmesse al consumatore. Le modalità di allevamento possono quindi essere comunicate tramite questo sistema che assicura una sostanziale trasparenza ed un consolidato sistema dei controlli.
È vero che i vitelli sono allevati in gabbia?
Contrariamente a quanto comunemente si crede, non è consentito l’allevamento in gabbia dei vitelli. Gli animali devono infatti rimanere esclusivamente in box e in gruppi per rispettare le caratteristiche di elevata socialità che caratterizzano il comportamento di questi animali.
A questo proposito, le norme sono stabilite dal Decreto Legislativo 7 luglio 2011, n. 126. Esse richiedono che nessun vitello di età superiore alle otto settimane sia rinchiuso in un recinto individuale; ogni recinto individuale non deve avere muri compatti, ma pareti divisorie traforate che consentano un contatto diretto, visivo e tattile tra i vitelli.
Per quanto riguarda i vitelli allevati in gruppo, invece, lo spazio libero disponibile per ciascun vitello varia in funzione del peso: deve essere pari ad almeno 1,5 m2 per ogni vitello di peso vivo inferiore a 150 kg, ad almeno 1,7 m2 per ogni vitello di peso vivo pari o superiore a 150 kg, ma inferiore a 220 kg e ad almeno 1,8 m2 per ogni vitello di peso vivo pari o superiore a 220 kg. Inoltre, si devono garantire isolamento termico, riscaldamento, ventilazione e giusta illuminazione al fine di mantenere l’ambiente sano e favorire crescita e benessere dei vitelli. Oltre a queste condizioni, i locali di stabulazione devono poter consentire a ogni vitello di coricarsi, giacere e alzarsi senza difficoltà.
Negli allevamenti gli animali vengono davvero maltrattati come mostrato da alcune trasmissioni televisive?
Il rispetto del benessere animale nelle fasi di allevamento, trasporto e macellazione ha assunto grande rilevanza negli ultimi anni, nell’Unione europea così come nei Paesi che esportano carne in Europa, tenuti ad adeguarsi a standard equivalenti a quelli previsti per gli Stati dell’Ue.
I motivi sono molteplici, ma oltre all’indubbia valenza etica e quindi all’attenzione da parte dell’opinione pubblica e degli organi di controllo, vi è anche una ragione puramente economica: eventuali fattori di stress e cattive condizioni di vita non solo generano condizioni di inutile sofferenza all’animale, ma anche scarsa qualità delle carni.
L’Unione europea è particolarmente all’avanguardia nell’ambito del benessere degli animali da reddito: la Commissione si sta infatti impegnando molto per incrementare il livello di benessere animale negli Stati membri, con un investimento continuo nel perfezionamento degli standard normativi. Uno sforzo questo che porta l’Europa a investire mediamente 70 milioni di euro all’anno in azioni finalizzate alla sola tutela del benessere animale.
Nell’Unione europea sono proibiti tutti quei metodi di allevamento che provocano sofferenze o lesioni ai capi di bestiame, e si impone che gli animali vengano controllati giornalmente e, nel caso, curati. Non solo, secondo la legislazione europea deve essere garantita libertà di movimento a tutti gli animali, mentre le attrezzature per la somministrazione di mangimi e acqua devono essere concepite, costruite e installate in modo da ridurre al minimo le possibilità di contaminazione degli alimenti o dell’acqua, e le conseguenze negative derivanti da rivalità fra gli animali.
Ci sono differenze tra gli allevamenti intensivi italiani e americani?
In Italia gli allevamenti bovini sono circa 110.000 con 6 milioni di capi. Ciò equivale a poco più di 54 capi per allevamento. In America i feedlot mediamente sono da 10.000 bovini. Dire che si tratta dello stesso allevamento è sbagliato.
Dove si effettua prevalentemente l'allevamento intensivo?
Le aree con grandi territori a bassa fertilità o elevata acclività, hanno sviluppato sistemi prevalentemente estensivi, mentre quelle con situazioni ad alta fertilità si sono invece orientati su sistemi intensivi, seguendo la stessa logica per cui le città e le industrie occupano i terreni migliori (alta intensità abitativa e produttiva), mentre i sistemi rurali sono presenti nei territori più difficili (bassa intensità abitativa e produttiva).
Allevamento intensivo: cosa si intende?
“Allevamento intensivo” è un termine generico che normalmente viene utilizzato per definire una modalità di allevamento svolta in ambienti circoscritti come stalle chiuse o aperte, o recinti, ecc, in grado di consentire un maggior controllo della salute animale e soprattutto l’applicazione di un regime alimentare adeguato ad ogni specie, che permette un ritmo di crescita equilibrato e un buon incremento ponderale giornaliero degli animali. Normalmente l’allevamento “intensivo” viene contrapposto all’allevamento “estensivo”, termine che viene associato al pascolo, ossia una condizione che crea nell’uomo un’impressione di minor sfruttamento e di maggior benessere per gli animali. In realtà non è sempre vero e non è possibile stabilire a priori che gli animali all’aperto, che hanno sicuramente più spazio a disposizione, stiano necessariamente meglio di quelli allevati in stalla. Al vantaggio del maggior spazio si contrappongono infatti altri svantaggi connessi al minor controllo sull’animale che questo allevamento comporta: ad esempio la minor possibilità di cura dalle malattie e dai parassiti, l’esposizione alle intemperie e ai predatori, la possibile non adeguata disponibilità di alimenti ed acqua in termini quantitativi e qualitativi.
Quanta carne bovina si dovrebbe consumare in una dieta sostenibile?
È stata recentemente pubblicata una nuova piramide della Dieta Mediterranea che coniuga gli aspetti nutrizionali del famoso modello alimentare con aspetti di sostenibilità alimentare (Updating the Mediterranean Diet Pyramid towards Sustainability: Focus on Environmental Concerns.) Questo modello indica un consumo di carne rossa che dovrebbe rimanere entro 2 porzioni settimanali, variando tra le diverse tipologie.
Quali altri prodotti si ottengono dagli allevamenti, oltre alla carne?
La produzione di carne rappresenta solo una parte di ciò che si ottiene dagli animali da allevamento. Borse, scarpe, dispositivi medici e valvole cardiache; o ancora saponette, fertilizzanti, caglio naturale e biogas: sono solo alcuni esempi dell’enorme quantità di prodotti e sottoprodotti che si ottengono dal settore zootecnico. La quantità di carne che si ottiene da un animale da destinare al consumo alimentare umano varia a seconda del tipo di animale. Nel caso dei bovini, ad esempio, è di circa il 35-40%.
La pelle bovina, giusto per fare qualche esempio vicino a tutti, è utilizzata per beni durevoli quali pellami e cuoio, che servono a loro volta per produrre scarpe, borsette, cinture o per ricoprire i divani e i sedili delle auto. Il grasso bovino, invece, viene utilizzato nell’industria cosmetica per fare il sapone. Quantità più piccole, ma di grande importanza, vengono utilizzate nel campo della medicina. I bovini forniscono il tessuto pericardico impiegato per la preparazione di dispositivi medici quali le valvole cardiache biologiche, mentre ossa e grasso sono molto utili in ambito farmaceutico per l’incapsulazione dei farmaci. Il caglio naturale (l’unico coagulante permesso per la produzione di formaggi DOP quali il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano) viene prodotto dall’industria casearia grazie all’abomaso dei bovini, l’ultima delle quattro cavità di cui è composto lo stomaco dei ruminanti. Ma questi, appunto, sono solo alcuni delle diverse migliaia di esempi disponibili.
È vero che le diete vegetariane e vegane sono più sostenibili di quella onnivora? Chi non mangia carne salverà il pianeta?
È indubbio che la carne sia l’alimento che, per chilogrammo, presenta maggiori impatti rispetto agli alimenti di origine vegetale, quindi teoricamente un piatto a base di proteine animali impatta di più rispetto ad uno vegetariano. In una dieta equilibrata che prevede il consumo di tutti gli alimenti, un consumo moderato di carne non incrementa in modo sostanziale gli impatti ambientali in un periodo di tempo di riferimento quale, ad esempio, una settimana.
Sempre più frequentemente, si sente dire che diventare vegetariani sia l’unico modo per salvare il pianeta. Spesso, infatti, chi sceglie di non mangiare carne lo fa per motivi ambientali, ancor prima che per motivi etici. Eppure, mangiare carne in giusta quantità o non mangiarne affatto non modifica in maniera sostanziale il proprio impatto ambientale complessivo. Altri fattori sono molto rilevanti sull’impatto ambientale complessivo di un individuo.
La scelta di una automobile, ad esempio, può portare ad importanti ricadute ambientali: la differenza di impatto tra un’auto con grande potenza e una con potenza media può essere superiore alle 500 tonnellate di CO2 all’anno, un valore molto superiore al potenziale beneficio associato alle scelte alimentari. Da questi dati risulta evidente come “essere sostenibili” non possa essere ricondotto a una sola scelta, ma dovrebbe essere il risultato di un comportamento attento a molti risvolti. Infatti, basti pensare che un terzo di tutto il cibo prodotto nel mondo viene perso o sprecato e lo spreco alimentare nel mondo rappresenta il terzo grande emettitore di emissioni di CO2 dopo Usa e Cina.
Una ulteriore osservazione è utile per comprendere come alcuni dei casi presentati siano relativamente semplici da mettere in atto, in quanto basati su una scelta immediata (come appunto l’acquisto dell’automobile), mentre altri siano più complessi in quanto vincolati a fattori esterni o ad abitudini e comportamenti che, come le scelte alimentari, richiedono valutazioni diverse.
È vero che la carne impatta più di altri alimenti per essere prodotta?
La carne è generalmente collocata tra gli alimenti con il più alto impatto ambientale per chilogrammo. Ciò è dovuto al fatto che la sua filiera di produzione è piuttosto articolata. A differenza dei prodotti di origine agricola, infatti, per produrre carne è necessario un “doppio passaggio”: prima si coltivano i vegetali per l’alimentazione degli animali, poi si avvia il processo di conversione proteica durante l’allevamento degli stessi (carne e latte).
Un secondo aspetto, particolarmente valido per la filiera del bovino adulto, è rappresentato dagli impatti della fattrice (la mamma dei vitelli), che viene allevata per produrre latte per l’uomo e per i vitelli. Ultimo aspetto è quello legato alla gestione delle deiezioni e alle fermentazioni enteriche, che comportano un impatto significativo, soprattutto nei confronti dell’effetto serra. Questi aspetti sono innegabili e fanno parte delle caratteristiche naturali della filiera del bovino.
Come diceva Paracelso, però, è la dose che fa il veleno. In altre parole, non ha molto senso confrontare (per giudicarli) l’impatto di alimenti differenti, soprattutto tenendo conto del fatto che in molti casi le filiere di produzione sono integrate e dipendono le une dalle altre. Infine, come mostra la Clessidra Ambientale, l’impatto settimanale dovuto al consumo di carne è allineato a quello degli alimenti per i quali gli impatti unitari sono minori ma le quantità consumate sono maggiori.
È vero che per produrre un chilogrammo di carne si consumano svariati chilogrammi di cibo vegetale potenzialmente destinato all'alimentazione umana?
Nel mondo, il 92% degli alimenti destinati ai bovini non sono commestibili dall’uomo1. L’allevamento bovino fa parte di un enorme ecosistema naturale: i bovini sono complementari agli esseri umani e riciclano residui colturali, coprodotti vegetali della trasformazione agroalimentare, erba e piante ricche in cellulosa, che noi non possiamo digerire, e li trasformano in nutrienti ad alto valore biologico, contribuendo in maniera netta all’approvvigionamento di proteine per l’umanità2. Un esempio? Quando si coltiva il mais, le bucce delle pannocchie e le piante sono scarti di produzione e verrebbero sprecate. Per fortuna si possono impiegare come alimento per i bovini. Così come i residui colturali provenienti dalle lavorazioni di soia, avena, grano, colza, orzo, e altri vegetali.
Fonte: 1 Mottet, Anne et al. (2017). Livestock: On our plates or eating at our table? A new analysis of the feed/food debate (rielaborazione per ruminanti). 2 Jessica R. Baber et al. (2018). Estimation of human-edible protein conversion efficiency, net protein contribution, and enteric methane production from beef production in the United States.
Secondo alcuni studi, l'allevamento in stalla avrebbe una grande impronta idrica, molto più elevata rispetto a quella al pascolo, ed è accusata di essere causa di inquinamento idrico. È corretto?
No, i dati riportati dal WFN dimostrano che il contrario. I dati che circolano in merito all’impronta idrica della carne (15.415 litri per kg di carne bovina) sono quelli pubblicati dal Water Footprint Network (www.waterfootprint.org), che prevedono la somma di tre contributi differenti: l’acqua blu, quella prelevata dalla falda o dai corpi idrici superficiali, l’acqua verde, quella piovana evapotraspirata dal terreno durante la crescita delle colture, e l’acqua grigia, il volume d’acqua necessario a diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione. Questo metodo di contabilizzazione presenta qualche criticità, soprattutto quando si guarda soltanto la somma dei dati: poiché il contributo “verde” è generalmente quello più alto, avviene che gli allevamenti al pascolo sono quelli caratterizzati da una impronta idrica più alta, 21.829 litri per Kg. (Mekonnen, Hoekstra; 2012)
Una seconda criticità sostanziale è che, prendendo in esame il valore complessivo e ignorando il contesto locale in cui avvengono la produzione e l’allevamento, non si mette in relazione il prelievo di acqua con la disponibilità di quel territorio. Il Water footprint della produzione di carne bovina in Italia si attesta a 11.500 litri di acqua per produrre 1 kg di carne (il 25% in meno rispetto ai 15.415 della media mondiale). Le ragioni del minore volume di acqua impiegata nelle produzioni italiane di bovini da carne e da latte, sono da ricercarsi nel sistema di allevamento nazionale, che prevede la permanenza degli animali al pascolo nella prima fase di vita (linea vacca-vitello) e gli ultimi sei mesi in stalla. Questo permette di ottenere una buona efficienza in termini di risorse impiegate per kg di carne prodotta. Oltre a questo, è da osservare come anche la produzione bovina italiana avvenga prevalentemente nelle zone più vocate e con la maggiore disponibilità di acqua (ad esempio lungo il fiume Po e dei suoi affluenti). A livello complessivo l’intero settore delle carni bovine impiega circa il 90-94% delle risorse idriche che fanno parte del naturale ciclo dell’acqua e che vengono restituite all’ambiente come l’acqua piovana; solo il 6-10% dell’acqua necessaria per produrre 1 kg di carne bovina viene quindi effettivamente consumata.
Per quanto riguarda l’inquinamento idrico invece, le deiezioni animali sono molto ricche di azoto e un loro spandimento incontrollato sui suoli potrebbe in effetti generare dei problemi ambientali alle falde. La direttiva nitrati pone però un limite molto chiaro a questo problema, definendo delle soglie massime di liquami che il terreno può ricevere a seconda che ci si trovi o meno in presenza di aree vulnerabili. Per ovviare a questo problema, i liquami reflui zootecnici e gli scarti di macellazione vengono sempre più spesso utilizzati per la produzione di biogas per produrre energia termica ed elettrica. Questo avviene grazie a impianti di digestione anaerobica di biomasse che sono in grado di trattare, oltre ai fanghi prodotti dagli impianti di depurazione, i reflui zootecnici e gli scarti di macellazione quali ad esempio il rumine. Il biogas prodotto viene normalmente impiegato nelle stesse aziende attraverso impianti di cogenerazione finalizzati alla produzione combinata di energia elettrica e termica con due vantaggi: da un lato la produzione di energia senza l’utilizzo di combustibili fossili, dall’altro la riduzione degli scarti da trattare. Il risultato della digestione anaerobica (il digestato) è un prodotto idoneo all’utilizzo in agricoltura (fertilizzante organico per produzioni biologiche). La filiera zootecnica bovina ha in corso un ambizioso progetto di riconversione del biogas in biometano attraverso impianti di upgrading e successiva liquefazione in LNG che potrà essere utilizzato sia per i camion di distribuzione merci sia per le macchine agricole, la cui trazione elettrica non è ancora al momento possibile.
È vero che l'allevamento intensivo non è sostenibile?
Contrariamente a quanto si pensa, dal punto di vista ambientale l’allevamento intensivo è più efficiente e sostenibile dell’allevamento estensivo. Consente una maggiore efficienza produttiva e quindi un minor consumo di risorse tramite il controllo costante dell’alimentazione e l’ottimizzazione delle materie prime. L’equilibrio efficiente tra questi fattori determina, infatti, un più elevato incremento ponderale giornaliero degli animali, con la conseguente riduzione degli sprechi e dell’impatto ambientale. L’allevamento estensivo richiede invece spazi maggiori e tempi più lunghi di allevamento, che necessitano di maggiore quantità di acqua e di alimenti, e risulta inoltre anche meno gestibile da un punto di vista di biosicurezza.
Che cosa è la clessidra alimentare?
Se si seguono i consigli di consumo suggeriti dal modello alimentare della dieta mediterranea, l’impatto medio settimanale della carne risulta allineato a quello di altri alimenti, per i quali gli impatti unitari sono minori ma le quantità consumate generalmente maggiori.
Questo è il concetto rappresentato dalla clessidra ambientale, ottenuta dalla moltiplicazione dell’impatto ambientale degli alimenti (il Carbon Footprint) per le quantità settimanali suggerite dalle linee guida nutrizionali INRAN 2003, ora CRA-NUT. Secondo questa rappresentazione, mangiare carne in giusta quantità non comporta un aumento significativo dell’impatto ambientale di un individuo.
Secondo la comunità scientifica internazionale, la Dieta Mediterranea rappresenta uno stile alimentare e di vita tra i più sostenibili al mondo. Perché? La Dieta Mediterranea include il consumo di carne?
La comunità scientifica internazionale riconosce il ruolo della Dieta Mediterranea nell’aumentare l’aspettativa di vita e migliorare la salute generale, e ha contribuito alla diffusione di questo modello dietetico come pilastro centrale dei programmi e delle politiche di salute pubblica in molti Paesi, dagli Stati Uniti all’Europa.
Ma la Dieta Mediterranea non è solo una dieta, rappresenta uno stile di vita che include concetti di ordine culturale e sociale, sottolineando l’importanza dell’esercizio fisico e della convivialità. La Dieta Mediterranea è molto varia e include ogni tipo di alimento, privilegiando prodotti freschi e stagionali: è uno stile alimentare con un elevato consumo di verdura, legumi, frutta e frutta secca, olio d’oliva e cereali (preferibilmente integrali), e un adeguato consumo di pesce, carne, prodotti caseari (specialmente formaggio e yogurt) e infine dolci e prodotti trasformati. Anche la carne, sia bianca che rossa, fa parte della Dieta Mediterranea.
È stata recentemente pubblicata una nuova piramide della Dieta Mediterranea che coniuga gli aspetti nutrizionali del famoso modello alimentare con aspetti di sostenibilità alimentare (Updating the Mediterranean Diet Pyramid towards Sustainability: Focus on Environmental Concerns.). In generale, la Dieta Mediterranea favorisce emissioni di gas serra “controllate” grazie al rispetto della stagionalità dei prodotti, del territorio e della biodiversità e all’elevata componente vegetale. Questo modello alimentare, sostenibile anche per il pianeta, comprende un consumo di carne rossa che dovrebbe rimanere entro 2 porzioni settimanali, variando tra le diverse tipologie.
Quanta carne bovina si dovrebbe consumare in una dieta sana ed equilibrata?
È stata recentemente pubblicata una nuova piramide della Dieta Mediterranea che coniuga gli aspetti nutrizionali del famoso modello alimentare con aspetti di sostenibilità alimentare (Updating the Mediterranean Diet Pyramid towards Sustainability: Focus on Environmental Concerns.). Questo modello indica un consumo di carne rossa che dovrebbe rimanere entro 2 porzioni settimanali, variando tra le diverse tipologie.
È vero che le diete vegetariane e vegane sono più salutari di quella onnivora?
In realtà, la comunità scientifica internazionale è concorde nel riconoscere la Dieta Mediterranea come uno dei migliori modelli alimentari per la salute dell’uomo. La Dieta Mediterranea, sebbene sia a base prevalentemente vegetale, comprende anche alimenti di origine animale: pesce, prodotti caseari (specialmente formaggio e yogurt), uova e carne, sia bianca che rossa. La Dieta Mediterranea è quindi una dieta onnivora. Inoltre, anche sulla base di studi sul cancro che non hanno mostrato particolari differenze nell’incidenza di questa patologia tra vegetariani e non vegetariani, la letteratura suggerisce che lo stato di salute di soggetti vegetariani occidentali sia del tutto comparabile a quello degli onnivori.
Agli animali in allevamento sono somministrati ormoni?
No, gli ormoni non vengono mai utilizzati negli allevamenti italiani ed europei (vietati dal legislatore dal 1961 per i bovini e dal 1981 per le altre specie animali) e non c'è dunque alcun rischio di trovare residui di queste sostanze nelle carni che portiamo a tavola. Infatti, l'utilizzo di queste sostanze negli allevamenti è illegale, vietato da norme italiane ed europee, e in Italia è perseguibile penalmente. Inoltre, i controlli che ogni anno sono effettuati dalle autorità sanitarie italiane nell'ambito del Piano Nazionale Residui, coordinato dal Ministero della Salute, confermano che nelle carni italiane non ci sono ormoni.
È vero che gli allevamenti intensivi sono la causa dell'antibiotico resistenza?
L’impiego del farmaco in zootecnia è solo uno dei numerosi aspetti del problema dell’antibiotico-resistenza (tra cui l’uso scorretto o l’abuso in medicina umana, la scarsità di nuove molecole, l’uso di antimicrobici anche per gli animali d’affezione). Le filiere zootecniche sono da anni impegnate, insieme al sistema veterinario, a individuare e diffondere le buone pratiche che limitino sempre più l’utilizzo degli antibiotici.
Le cause alla base dell’utilizzo degli antibiotici sono molteplici e non dipendono solo dal tipo di allevamento, ma soprattutto dalle condizioni sanitarie generali del territorio. Se da un lato gli allevamenti intensivi necessitano di cure che coinvolgono un maggior numero di animali e quindi possono determinare un maggior consumo di antibiotici in termini meramente quantitativi, è altresì vero che l’ambiente in stalla limita il propagarsi delle malattie infettive e consente efficaci politiche di contenimento della malattia. L’allevamento estensivo o brado comporta, al contrario, un rischio di diffusione delle malattie più elevato, in quanto più numerosi sono gli agenti che possono contribuire alla propagazione degli agenti infettivi (es. agenti atmosferici, fauna selvatica, promiscuità fra le varie specie animali).
Perché se non si possono usare preventivamente gli antibiotici, l'Italia è tra i primi posti in Europa per quantità acquistate?
In Italia il dato relativo agli acquisti di antibiotici per gli animali in allevamento è in calo del 42% nel periodo 2010-2018. Nel corso del 2009 l’Italia aveva infatti avviato una forte campagna di sensibilizzazione volta a ridurre l’uso di antibiotici non supportati da adeguate diagnosi negli allevamenti e ad incentivare l’uso prudente negli animali d’affezione (cani e gatti).
Ulteriori azioni espressamente rivolte verso la prevenzione dei fenomeni di antibiotico resistenza furono intraprese in vari momenti a partire dal 2010. Nel 2012, una linea guida relativa ai controlli ufficiali sulla distribuzione ed utilizzo degli antimicrobici è stata distribuita agli organi di controllo. L’Italia ha poi avviato un piano nazionale per la verifica dell’antibiotico resistenza in forza della Decisione 2013/652/UE relativa al monitoraggio e alle relazioni riguardanti la resistenza agli antimicrobici.
La Commissione Europea, con decisione del 14 luglio del 2016, ha rivisto e strettamente disciplinato l’immissione in commercio e l’impiego in allevamento di tutti farmaci ad uso orale contenenti il principio attivo “colistina”, invitando gli Stati membri a rivederne e ridurne l’uso nei successivi 4 anni. A fronte di ciò l’Italia ha emanato il Decreto del Ministero della Salute 25 luglio 2016 che recepisce la decisione sopra citata e revocato le specialità medicinali per uso veterinario contenenti colistina in associazione con altri agenti antimicrobici per somministrazione orale. Le specialità medicinali citate nel decreto non possono essere più fabbricate e quelle in commercio alla data di pubblicazione del decreto (il 24 agosto 2016) sono state ritirate entro il 24 ottobre 2016.
Nell’aprile del 2019 l’Italia è stata fra i primi Paesi europei a rendere obbligatoria la ricetta elettronica veterinaria per gli animali da reddito e di affezione, che ha consentito nel primo anno di tracciare un quadro più preciso dei farmaci utilizzati per curare gli animali.
Nel 2020 sono stati prescritte 16 milioni di confezioni per gli animali da compagnia e circa 9 milioni per gli animali da reddito, corrispondenti rispettivamente a 10 milioni di ricette destinate ai pet e 850.000 ricette per gli animali zootecnici.
Negli allevamenti italiani si utilizzano antibiotici come promotori della crescita? Restano nella carne che mangiamo? Chi controlla che le carni che arrivano sulla nostra tavola non contengono antibiotici?
Secondo l’approccio dato dalle normative attuali in materia, dal 2006, l’uso degli antibiotici deve essere solo terapeutico e non preventivo. I farmaci vengono somministrati soltanto in presenza di patologie: l’utilizzo di qualsiasi antibiotico deve essere prescritto da un veterinario autorizzato e questa procedura stabilisce il regime di trattamento, cioè la durata e la dose necessaria, e il rigoroso rispetto dei tempi di sospensione, ovvero il tempo necessario affinché il farmaco sia smaltito prima che l’animale o i prodotti da esso derivato possano essere idonei al consumo. Un tale protocollo garantisce efficacia del trattamento, escludendo il rischio di residui nelle carni e riducendo al minimo quello dell’antibiotico resistenza.
A conferma del rispetto di queste norme nelle oltre 344.686 analisi condotte nel 2019 dalle autorità pubbliche competenti per la valutazione dei residui di trattamenti farmacologici su animali produttori di derrate alimentari i campioni non conformi sono stati meno dello 0,1%. Oltre ai limiti massimi di residui (LMR) viene stabilita anche la Quantità Giornaliera Accettabile (ADI), cioè la quantità di una sostanza che può essere ingerita ogni giorno per tutta la vita senza avere alcun effetto sulla salute umana. Le leggi, nello stabilire questi limiti, considerano quantità anche 100 volte inferiori a quelle sicure per l’uomo: in altri termini, se le ricerche hanno stabilito 100 come limite di sicurezza per l’uomo, la legge fissa un limite di 1 come residuo accettabile. Per questo, il livello di sicurezza è massimo: anche se ingerissimo tutti i giorni queste sostanze, cosa che nella realtà non avviene, l’impatto sulla nostra salute sarebbe comunque nullo.
Mangiare carne rossa può provocare il cancro o altre patologie? Perché lo IARC ha classificato le carni rosse come probabilmente cancerogene per l'uomo?
Un’assunzione di carne rossa in quantità moderata, come quello suggerito della Dieta Mediterranea, è ben inferiore alla soglia dei 500 g alla settimana, limite massimo indicato dallo IARC che, nel 2015, ha incluso le carni rosse nel Gruppo 2A (probabilmente cancerogene), sulla base sulla base di studi epidemiologici condotti sulla popolazione adulta. Questo possibile effetto sembra in realtà dipendere dai metodi di lavorazione e di cottura, soprattutto ad alta temperatura, come nel caso della griglia o delle fritture.
Tuttavia, come precisato dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), gli studi epidemiologici da cui derivano correlazioni scientifiche, non possono essere interpretati come prove di un rapporto di causa-effetto. Ciò significa che si può parlare di aumento del rischio (in base a quantità e frequenza di consumo) ma non di sicura comparsa del tumore come conseguenza del loro consumo. Inoltre, la soglia massima di consumo della carne rossa è di 500 g a settimana, ben al di sopra del reale consumo pro-capite di carne bovina, che in Italia si attesta a 25g al giorno1.
Alla luce di queste considerazioni, secondo l’ISS “non vi è evidenza scientifica che la carne rossa non lavorata, assunta nelle giuste quantità e nell'ambito di una dieta variata, sia un agente cancerogeno certo. Per alcune categorie come i bambini e le donne in gravidanza costituisce un alimento molto importante per fornire i nutrienti necessari come il ferro e la vitamina B12”.
Fonte: 1Fonte: V. Russo, A. De Angelis, P. Danieli, Consumo reale di carne e di pesce in Italia. Franco Angeli. Rielaborazione su dati consumi pro-capite Gira 2020f.
Perché è importante la presenza delle proteine animali in una dieta equilibrata? Che benefici apporta all'organismo il consumo di carne?
La Dieta Mediterranea prevede un consumo moderato di carne, alimento in grado di apportare numerosi benefici all’organismo.
Un corretto consumo di carni, soprattutto di tagli magri della stessa, può essere benefico nelle diverse fasi della vita. Come quella della crescita, quando gli adolescenti hanno un maggiore fabbisogno proteico e devono evitare il rischio di anemie da carenza di ferro.
Anche durante la gravidanza, uno dei momenti in cui il fabbisogno di sostanze nutritive è massimo, è consigliabile assumere carne (ben cotta), secondo le giuste quantità e frequenze, così come durante l’età pediatrica, altro periodo della vita in cui i fabbisogni di alcuni nutrienti possono essere maggiori. Anche durante la terza età, l’assunzione di proteine è un tema rilevante: un apporto inadeguato di proteine in una persona anziana contribuisce infatti ad aumentare la fragilità ossea, a ridurre le capacità di recupero dell’organismo e le funzioni immunitarie, causando difficoltà e prolungamento dei tempi di guarigione dalle malattie. Sempre accompagnata da abbondanti quantità di frutta e verdura, la giusta quantità di cibi di origine animale permette in ogni fase della vita di soddisfare il fabbisogno proteico ma anche quello di micronutrienti come le vitamine del gruppo B, soprattutto la B12, e di minerali come il calcio, il ferro e lo zinco.
Secondo la comunità scientifica internazionale, la Dieta Mediterranea rappresenta uno stile alimentare e di vita tra i più salutari al mondo. Perché? La Dieta Mediterranea include il consumo di carne?
La comunità scientifica internazionale riconosce il ruolo della Dieta Mediterranea nell’aumentare l’aspettativa di vita e migliorare la salute generale, e ha contribuito alla diffusione di questo modello dietetico come pilastro centrale dei programmi e delle politiche di salute pubblica in molti Paesi, dagli Stati Uniti all’Europa. Ma la Dieta Mediterranea non è solo una dieta, rappresenta uno stile di vita che include concetti di ordine culturale e sociale, sottolineando l’importanza dell’esercizio fisico e della convivialità.
La Dieta Mediterranea è molto varia e include ogni tipo di alimento, privilegiando prodotti freschi e stagionali: è uno stile alimentare con un elevato consumo di verdura, legumi, frutta e frutta secca, olio d’oliva e cereali (preferibilmente integrali), e un adeguato consumo di pesce, carne, prodotti caseari (specialmente formaggio e yogurt) e infine dolci e prodotti trasformati. Anche la carne, sia bianca che rossa, fa parte della Dieta Mediterranea.