L’allevamento del bovino può fornire un importante contributo nel contrastare i cambiamenti climatici e ridurre l’avanzare dei processi di desertificazione. Un’affermazione che sembra in contrasto con talune convinzioni, che vorrebbero imputare all’allevamento le maggiori responsabilità in tema di impatto ambientale. Non è così, come mostrano molte evidenze scientifiche. Ma andiamo con ordine, iniziando dal prendere in esame il tema della desertificazione.
“Degrado delle terre attribuibile a varie cause, fra le quali le variazioni climatiche e le attività antropiche”. Così è stata definita la desertificazione dall’Onu (Rio 1992, Conferenza su ambiente e sviluppo), chiamata a dare una risposta a un problema che già allora era evidente. E che oggi, complice i cambiamenti climatici, si fa ancora più pressante, interessando il bacino del Mediterraneo e dunque anche l’Italia e in particolare alcune aree, anche estese, di Puglia, Sicilia e Sardegna. Coinvolgendo, inaspettatamente, una larga parte della “fertile” Pianura Padana, tanto che circa il 30% della sua superficie è predisposta al rischio di desertificazione.
Non si tratta solo di un evento congiunturale, attribuibile a periodi di siccità, ma di una trasformazione del terreno, che perdendo le sue normali caratteristiche bio-chimiche-fisiche, riduce la capacità di produrre alimenti.
Osservando come il fenomeno si presenta in Italia, si nota la maggiore criticità riscontrata nelle regioni insulari. C’è chi (Enea, progetto Riade) ha cercato di chiarirne le cause. Il clima e la piovosità hanno a questo proposito un ruolo importante, al quale si aggiunge quello delle attività antropiche.
È a questo punto che entra in ballo l’allevamento dei bovini, la cui presenza si dimostra utile per la fertilità del terreno e per il contrasto alla desertificazione. Prendiamo il caso della Sicilia, la più grande regione italiana in quanto a superficie. Modesto però il suo patrimonio bovino, che si ferma a poco oltre 339mila capi (fonte Anagrafe zootecnica), appena il 6% del totale.
E allora la vulnerabilità della pianura Padana come si giustifica? Anche in questo caso un’occhiata alla distribuzione degli allevamenti torna utile. L’area maggiormente a rischio di desertificazione è quella orientale. Più che stalle, si incontrano frutteti, vigneti e poche colture foraggere. Qui la produttività dei terreni è assicurata dagli apporti in azoto, fosforo e potassio, affidati in prevalenza ai concimi chimici. Perfetti per “alimentare” le piante, ma insufficienti a garantire la fertilità del terreno. Fertilità che nasce da un mirabile connubio di elementi chimici, di miliardi di microrganismi e di caratteristiche fisiche capaci di catturare l’acqua e cederla alle piante. In una parola, l’humus.
Fondamentale per l’humus è il letame dei bovini, capace com’è di arricchire il terreno di sostanza organica, migliorandone la struttura fisica, apportando al contempo una preziosa micropopolazione microbica.
Lasciate a “maturare” in concimaia, le deiezioni dei bovini mescolate con la lettiera innescano un processo di fermentazione che opera una sorta di ottimizzazione della popolazione batterica presente, sanificando la massa. L’esito è un prodotto ricco in azoto e fosforo a lento rilascio, che alle proprietà fertilizzanti associa quelle ammendanti. Quando occorre, il processo di maturazione del letame può essere “pilotato” per rispondere alle esigenze agronomiche dei diversi territori ai quali è destinato.
Senza scomodare le più recenti tecnologie per la produzione di biogas e biometano, dove il letame ha dimostrato una sostenibilità persino superiore a quella dell’idrogeno, l’allevamento del bovino si conferma un alleato dell’uomo nella lotta ai cambiamenti climatici. Accade in fase di allevamento, grazie al bilancio positivo nel sequestro di carbonio, e continua nelle fasi successive, favorendo la fertilità dei terreni. Gli stessi terreni che grazie al letame produrranno di più e miglioreranno la loro capacità di ritenzione idrica, allontanando lo spettro della desertificazione.