Allevare bovini non è facile. Richiede conoscenze che vanno dalla biologia all’informatica (tante le tecnologie digitali presenti in stalla). Poi forti investimenti che a loro volta comportano capacità manageriali non comuni e buona preparazione in campo economico. Competenze indispensabili per affrontare un mercato sempre più complesso e in rapido e costante divenire, che rende desueto in breve tempo ciò che prima era economicamente sostenibile. Accade ovunque e a ogni latitudine, ma nelle aree più difficili, come quelle di collina e montagna tutto ciò si complica a dismisura, amplificato da un clima più rigido, da infrastrutture carenti, dalla minore disponibilità di reti di comunicazione.
Accade così che mantenere una stalla di bovini possa trasformarsi in un’attività antieconomica, destinata alla chiusura. Un evento frequente, purtroppo. E quando una stalla chiude non si perde solo un’opportunità economica e sociale, ma sparisce una presenza che assicura il presidio e la cura del territorio, una fonte di alimenti tipici di un determinato ambiente, frutto di una preziosa e irripetibile cultura alimentare. Al contempo si impoverisce un’area agricola, privandola della sostanza organica prodotta dagli animali, indispensabile alla fertilità dei terreni. Danni che si aggiungono all’inevitabile perdita di biodiversità.
Quanto sia frequente la chiusura di un’azienda zootecnica lo evidenziano alcuni numeri sulla consistenza del patrimonio bovino in Italia. Nel 1990 il quarto censimento agricolo Istat conteggiava la presenza di 318.207 allevamenti di bovini. A distanza di trenta anni le rilevazioni dell’Anagrafe Nazionale Zootecnica ci dicono che il loro numero si è ridotto a poco più di 135mila. A gettare la spugna sono state in prevalenza le stalle di dimensioni più piccole e quelle presenti in aree marginali.
L’abbandono degli allevamenti ha coinciso con un’altra trasformazione, all’apparenza positiva. Sono aumentate le aree boschive, che ora contano 11 milioni ettari, con un incremento negli ultimi dieci anni di 587mila ettari, così affermano i numeri diffusi dall’Inventario nazionale delle foreste. In parte è il risultato dell’abbandono dei pascoli, sostituiti dai boschi, ma oggi privi della cura un tempo affidata agli stessi allevatori che quelle zone hanno dovuto lasciare. Così abbiamo più boschi, ma più degradati e più facile preda di incendi (nel 2021 hanno distrutto 160mila ettari), abbiamo più praterie, ma senza controllo, incapaci di trattenere acqua ed evitare frane e smottamenti.
Nemmeno ci si può consolare ricordando che l’aumento delle aree boschive coincide con una maggiore tutela ambientale. Certo, il bosco contribuisce al sequestro di carbonio, utile dunque al contrasto ai cambiamenti climatici. Ma forse non tutti sanno che anche il bovino è in grado di garantire un contributo netto al sequestro di carbonio. In altre parole, è più quello sequestrato dalle attività zootecniche e di coltivazione rispetto a quello emesso (De Vivo, Zicarelli – 2021). Per di più la presenza di un allevamento assicura il presidio del territorio, evita lo spopolamento di colline e montagne e garantisce il recupero di valori sociali oltre che economici.
Alla zootecnia di montagna e collina, o comunque nelle aree “difficili”, andrebbe garantito un percorso “agevolato”, sostenendone la presenza con incentivi di carattere economico e soprattutto rimuovendo immotivati orpelli burocratici. Magari privilegiando le imprese guidate da giovani, oggi più di ieri attenti a un’agricoltura in sintonia con l’ambiente. Sostenibile, come oggi si dice. Cosa che un allevamento di bovini è in grado di garantire.