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Il benessere animale visto da vicino
Sostenibilità
20/01/2022
4 min.
Sostenibilità

Proviamo a entrare insieme in un allevamento di bovini. Troveremo molte tecnologie tese a garantire il maggior benessere possibile per gli animali. A iniziare dalle attrezzature più semplici, come i grandi ventilatori per muovere l’aria e combattere il caldo o le doccette che nebulizzano l’acqua nelle ore più calde dell’estate. Il freddo fa meno paura. Ci ha pensato madre Natura a dotare gli animali di un buon mantello. All’allevatore resterà solo il compito di evitare eccessive correnti d’aria.

Poi un tripudio di tecnologie digitali, a iniziare da quelle per identificare gli animali e misurarne i parametri di salute, capaci di misurare dettagli come l’andamento dei processi digestivi. Sensori di temperatura e umidità provvederanno ad aprire e chiudere finestre, accendere e spegnere luci, somministrare alimenti, controllare con videocamere i movimenti. E quando occorre allertare l’allevatore per richiedere il suo intervento.

Aver attrezzato in questo modo le stalle non è solo un aiuto al lavoro dell’allevatore. Sono strumenti ormai indispensabili per garantire il benessere degli animali. Che non è quello idealizzato da una visione antropocentrica e distorsiva di un’agricoltura bucolica e romantica. Bensì quella definita dalla scienza che riassume il benessere animale in cinque libertà: dalla fame, dai disagi ambientali, dalle malattie, dalla paura, dalla costrizione (dunque libertà di comportamenti naturali). È esattamente quanto viene assicurato in ogni allevamento protetto, termine che dovrebbe sostituire quello di intensivo, spesso additato erroneamente come un luogo inospitale e inadatto agli animali.

Quando ci propongono immagini di animali ammassati l’uno sull’altro, in ambienti sporchi e polverosi, certo anche maleodoranti, non siamo di fronte a un allevamento, ma a un illecito, da denunciare e perseguire. Lo prevede la legge, che in tema di benessere negli allevamenti è precisa e severa. Per fare qualche esempio, nel caso dei bovini sono state da tempo vietate le gabbie per i vitelli. Le troveremo solo quando necessarie per i giovani animali (ma solo nelle prime settimane di vita) oppure nelle “infermerie”, per favorire la guarigione dei malati. Per ogni animale in allevamento è poi fissata la superficie a disposizione, lo spazio procapite delle mangiatoie, la qualità dell’acqua e dell’aria e via elencando.

Ma non si creda che gli allevatori provvedano al benessere degli animali perché lo impone una legge. Semmai si adegueranno a essa per alcuni dettagli, ma il benessere degli animali è la prima preoccupazione di ogni allevatore professionale.

Animali stressati, denutriti e spaventati o peggio ancora maltrattati, sono destinati ad ammalarsi o nella migliore delle ipotesi a ridurre il loro potenziale produttivo. In altre parole, l’azienda che non rispetta il benessere degli animali è destinata al fallimento. È solo questione di tempo.

Negli allevamenti protetti si vuole andare oltre il rispetto delle norme, oltre il semplice benessere animale. Non solo per motivi etici. Ambienti più confortevoli, alimentazione controllata e bilanciata, sistemi di monitoraggio delle condizioni ambientali assicurano animali in perfetta salute. Evitando così malattie il cui costo è doppio, prima per le cure necessarie, poi per le mancate produzioni che ne conseguono.

Questo impegno, più diffuso di quanto si vuol far credere, sfugge però al consumatore, che pure si dice ben disposto a scegliere carne che proviene da allevamenti dove si rispettano i canoni del benessere animale. Troppo anonimi i prodotti di origine animale, che si limitano a farci conoscere nella migliore delle ipotesi il luogo di provenienza della materia prima.

Ma qualcosa, seppure lentamente, si va facendo. Molte le attività delle singole organizzazioni di settore. A queste si aggiungono le iniziative dell’amministrazione pubblica, come il recente SQNBA, cacofonico acronimo di Sistema di qualità nazionale per il benessere animale, che si propone attraverso un apposito sistema di certificazione di valorizzare le produzioni animali ottenute con criteri di eccellenza sul fronte del benessere animale.

Tutte queste iniziative, impossibile ricordarle tutte, pagano tuttavia lo scotto di una scarsa conoscenza da parte del consumatore e di un’altrettanto scarsa penetrazione sul mercato. Ci sarà tempo per migliorare, intanto si prenda atto che ogni bistecca che arriva sulle nostre tavole, proviene da soggetti in perfetta salute e allevati nelle migliori condizioni, rispettando i criteri alla base del benessere animale.

A cura di
Angelo Gamberini
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Emissioni di gas serra del sistema agroalimentare: chi sono i veri responsabili?
Sostenibilità
10/01/2022
4 min.
Sostenibilità

La popolazione mondiale continua a crescere: dagli anni ’60 ad oggi si è più che duplicata passando da 3 miliardi circa di persone ad oltre 7,8 miliardi, e si stima che entro i prossimi 30 anni raggiungeremo la quota di 10 miliardi di abitanti. Questa crescita avrà indubbiamente delle conseguenze sulle future generazioni e rende necessari degli interventi immediati sulla gestione delle risorse e la produzione di cibo. Attualmente, infatti, siamo in grado di produrre in modo sostenibile cibo per appena 3,4 miliardi di persone (1) ma un cambiamento è possibile ed è fondamentale che i nostri sistemi di produzione diventino sempre più efficienti e sostenibili, per far fronte alla crescita mondiale e allo stesso tempo preservare la salute del pianeta.

Proprio in merito all’impatto ambientale della produzione alimentare, è recentissima la notizia che, secondo un nuovo studio condotto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), la fase di trasformazione alimentare potrebbe superare la fase agricola come maggior contributore alle emissioni di gas serra (GHG) del sistema agroalimentare in molti Paesi, a causa della rapida crescita dei processi di trasformazione alimentare, imballaggio, trasporto, vendita al dettaglio, consumo domestico e smaltimento dei rifiuti (2; 3).

Lo studio, che aveva come obiettivo quello di quantificare le emissioni di gas serra nel sistema agroalimentare al fine di allertare i principali responsabili e permettere adeguate misure di mitigazione, ha infatti evidenziato che sia in Europa che in Nord America le emissioni di gas serra dalle fasi di pre e post-produzione della filiera alimentare, fasi quindi non correlate all’attività agricola né ai cambiamenti nell’uso del suolo, rappresentano più della metà delle emissioni totali del sistema agroalimentare. In Paesi come l’Africa e il Sud America, invece, la quota di emissioni dalle fasi di trasformazione alimentare è ad oggi inferiore e pari al 14% ma risulta più che raddoppiata nel corso degli ultimi 30 anni (2; 3).

I dati utilizzati sono quelli del nuovo database FAOSTAT che raccoglie le emissioni di gas serra di 236 Paesi e territori nel periodo 1990-2019 ed è oggi accessibile a tutti sul relativo portale. Dall’analisi è emerso come, nel corso degli ultimi 30 anni, ci sia stato a livello mondiale un aumento del 17% delle emissioni totali di gas serra antropogeniche provenienti dai sistemi agroalimentari, che nel 2019 sono state pari a 16,5 miliardi di tonnellate, ovvero il 31% di tutte le emissioni correlate all’attività dell’uomo. Di questi 16,5 miliardi di tonnellate di emissioni di gas serra, 7,2 miliardi di tonnellate provenivano dall’interno delle aziende agricole, 3,5 dai cambiamenti di utilizzo del suolo (trasformazione delle foreste in terreni coltivati, ad esempio) e ben 5,8 miliardi di tonnellate dai processi di trasformazione alimentare (2; 3). Inoltre, è stato osservato che nel corso degli ultimi 30 anni le emissioni derivanti dai cambiamenti di utilizzo del suolo, pur rimanendo uno dei più importanti determinanti delle emissioni dei sistemi agroalimentari, sono in realtà diminuite del 25%, mentre le emissioni provenienti dalle aziende agricole sono aumentate solo del 9%. A guidare effettivamente l’aumento delle emissioni complessive di gas serra del sistema agroalimentare è quindi la fase di trasformazione alimentare: le emissioni generate al di fuori dei terreni agricoli, nei processi di pre- e post-produzione lungo le filiere alimentari, hanno un peso sempre maggiore in termini di impatto ambientale (2; 3). Come affermato dal Dottor Tubiello, primo autore dello studio, statistico senior della FAO “ciò ha importanti ripercussioni per le strategie nazionali di mitigazione relative alla produzione alimentare, considerando che fino a poco tempo fa queste si sono concentrate principalmente sulla riduzione di gas diversi dalla CO2 (“non-CO2”) all’interno dell’azienda agricola e sulla CO2 derivante dai cambiamenti di utilizzo del suolo” (2).

 

Riferimenti

  1. Gerten, D., Heck, V., Jägermeyr, J., Bodirsky, B. L., Fetzer, I., Jalava, M., … & Schellnhuber, H. J. (2020). Feeding ten billion people is possible within four terrestrial planetary boundaries. Nature Sustainability, 3(3), 200-208.
  2. Food and Agriculture Organization of the United Nations (FAO). Supply chain joins deforestation and farming practices as main source of emissions in agri-food sector. https://www.fao.org/newsroom/detail/supply-chain-is-growing-source-of-agri-food-GHG-emissions/en.
  3. Tubiello, F. N., Karl, K., Flammini, A., Gütschow, J., Obli-Layrea, G., Conchedda, G., … & Torero, M. (2021). Pre-and post-production processes along supply chains increasingly dominate GHG emissions from agri-food systems globally and in most countries. Earth System Science Data Discussions, 1-24.
A cura di
Giuseppe Pulina