Ci sono prodotti che sono espressione stessa di un territorio, di una storia condivisa, di una cultura. In Italia, questo è il caso della carne. E non solo perché la nostra penisola può vantare alcune delle carni più pregiate e conosciute in tutto il mondo, ma perché proprio nella pratica dell’allevamento risiede il seme della nostra civiltà e la storia ne è testimone, in un intreccio tra leggende e fonti documentali che definiscono la narrazione del rapporto fra uomo e animali dai suoi albori fino ai giorni nostri.
Allevatore fin dalla notte dei tempi
Le primissime testimonianze di allevamento risalgono già al 10.000 a.C., quando la figura del “cacciatore” iniziò progressivamente ad abbandonare arco e frecce e ad addomesticare gli animali più docili, ottenendo in questo modo le risorse che tradizionalmente reperiva abbattendo gli animali selvatici. Avere a disposizione in maniera più duratura e continuativa carne, pelli, uova e latte risultò molto più conveniente, determinando in modo irreversibile l’ascesa dell’allevamento, anche in funzione di una maggiore resa nella nascente agricoltura. Tra i primi animali addomesticati ci furono probabilmente ovini e caprini, seguiti da suini e bovini, a seconda della zona che si considerata: ad esempio, il bove è un animale di antichissima domesticazione per quanto riguarda l’area compresa tra Medio Oriente e India, mentre più recente per quella europea. Una delle prime aree dove l’allevamento venne “istituzionalizzato” fu sicuramente la Mesopotamia del 6.000 a.C. circa, così come l’Egitto dei faraoni, dove animali domestici come il toro venivano usati per le rappresentazioni delle divinità. In tutta la Mezzaluna Fertile durante il terzo e secondo millennio a.C. si verificò un intensificarsi non solo della pastorizia in sé, ma anche un progressivo affinamento della pratica armentizia, focalizzato soprattutto sulla selezione delle razze, al fine di ottenere esemplari sempre migliori. Non fu però solo il Vicino Oriente a custodire i primi germogli di una pratica destinata a durare nei millenni. Infatti, anche in Europa, seppur in tempi più recenti, nuclei geopolitici che spontaneamente si adoperarono nello sviluppo dell’allevamento, quali le popolazioni delle regioni affacciate sul Mediterraneo, storicamente le più ricettive nei confronti delle innovazioni provenienti da Oriente anche grazie all’interscambio culturale operato per secoli da Fenici e Greci.
Un nome, un destino
Il nome Italia trae origine da una tradizione classica che trova il suo epicentro geografico nell’estremità meridionale della Calabria, e solo con l’espansione romana il nome si diffuse capillarmente nel resto della penisola, per essere poi ufficializzato nel 42 a.C. da Ottaviano Augusto. Come afferma Carla Marcato, professoressa di Linguistica Italiana all’Università di Udine, la coniazione di “Italia” è incerta, in quanto si suppone derivi dal sostantivo Viteliu in lingua osca, o da vitluf, “vitello”, in lingua umbra, latinizzato poi in vitulus. Secondo altri studi, il termine Italia deriverebbe da un popolo pre-romano primigenio, gli Itali, che si sarebbero dati questo nome per celebrare l’antico uso di divinizzare l’animale totem del clan, il vitello, o in alternativa per definirsi “figli del toro”.
Quando la leggenda diventa realtà
Tutte le ricerche sull’origine del nome Italia convergono verso la certezza storica che, già prima dell’espansione romana, la nostra penisola fu sede di una diffusa attività agro-pastorale caratterizzata dalla prevalente a presenza dei bovini. Secondo lo storico romano Varrone, infatti, l’allevamento ricoprì un ruolo indispensabile anche molto tempo dopo l’introduzione dell’agricoltura, al punto tale che nella memoria legata alla fondazione di Roma, il contesto economico è sempre stato illustrato con forte valenza pastorale, associando i primi re leggendari a “professionisti dell’allevamento”. La stessa nascita di Roma potrebbe essere avvenuta in occasione della festa pastorale dei Palilia, dedicata a Pales, la dea dei pastori e della pastorizia. La figura del pastore ebbe la sua evoluzione nel corso dell’età repubblicana, durante la quale acquisirono rilevanza i patrimoni costituiti da greggi o mandrie di grandi dimensioni, e di conseguenza i loro proprietari divennero personaggi di fondamentale importanza sociale ed economica. Solo nella tarda Repubblica l’allevamento divenne un affare di competenza anche della classe equestre e senatoria. L’importanza dell’allevamento in epoca romana traspare anche grazie a Virgilio, il quale nelle Georgiche descrive i metodi migliori per governare e curare il bestiame di grossa e piccola taglia. Spicca qui la figura del pastore nordafricano, nobilitato dal paragone col legionario romano, che porta con sé tutto ciò che possiede: tenda, focolare, utensili, cane e armi. Serviranno le riforme dei Gracchi per far assestare all’agricoltura il primo vero e duro colpo nei confronti l’allevamento, che tuttavia riuscì comunque a rimanere uno dei pilastri sociali della penisola e a rifiorire, neanche troppo tempo dopo, con la riorganizzazione politica dell’Italia medievale.