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Uomo e bovino: una storia che affonda le radici all’origine della civiltà.
Sostenibilità
20/06/2021
4 min.
Sostenibilità

Ci sono prodotti che sono espressione stessa di un territorio, di una storia condivisa, di una cultura. In Italia, questo è il caso della carne. E non solo perché la nostra penisola può vantare alcune delle carni più pregiate e conosciute in tutto il mondo, ma perché proprio nella pratica dell’allevamento risiede il seme della nostra civiltà e la storia ne è testimone, in un intreccio tra leggende e fonti documentali che definiscono la narrazione del rapporto fra uomo e animali dai suoi albori fino ai giorni nostri.

Allevatore fin dalla notte dei tempi

Le primissime testimonianze di allevamento risalgono già al 10.000 a.C., quando la figura del “cacciatore” iniziò progressivamente ad abbandonare arco e frecce e ad addomesticare gli animali più docili, ottenendo in questo modo le risorse che tradizionalmente reperiva abbattendo gli animali selvatici. Avere a disposizione in maniera più duratura e continuativa carne, pelli, uova e latte risultò molto più conveniente, determinando in modo irreversibile l’ascesa dell’allevamento, anche in funzione di una maggiore resa nella nascente agricoltura. Tra i primi animali addomesticati ci furono probabilmente ovini e caprini, seguiti da suini e bovini, a seconda della zona che si considerata: ad esempio, il bove è un animale di antichissima domesticazione per quanto riguarda l’area compresa tra Medio Oriente e India, mentre più recente per quella europea. Una delle prime aree dove l’allevamento venne “istituzionalizzato” fu sicuramente la Mesopotamia del 6.000 a.C. circa, così come l’Egitto dei faraoni, dove animali domestici come il toro venivano usati per le rappresentazioni delle divinità. In tutta la Mezzaluna Fertile durante il terzo e secondo millennio a.C. si verificò un intensificarsi non solo della pastorizia in sé, ma anche un progressivo affinamento della pratica armentizia, focalizzato soprattutto sulla selezione delle razze, al fine di ottenere esemplari sempre migliori. Non fu però solo il Vicino Oriente a custodire i primi germogli di una pratica destinata a durare nei millenni. Infatti, anche in Europa, seppur in tempi più recenti, nuclei geopolitici che spontaneamente si adoperarono nello sviluppo dell’allevamento, quali le popolazioni delle regioni affacciate sul Mediterraneo, storicamente le più ricettive nei confronti delle innovazioni provenienti da Oriente anche grazie all’interscambio culturale operato per secoli da Fenici e Greci.

Un nome, un destino

Il nome Italia trae origine da una tradizione classica che trova il suo epicentro geografico nell’estremità meridionale della Calabria, e solo con l’espansione romana il nome si diffuse capillarmente nel resto della penisola, per essere poi ufficializzato nel 42 a.C. da Ottaviano Augusto. Come afferma Carla Marcato, professoressa di Linguistica Italiana all’Università di Udine, la coniazione di “Italia” è incerta, in quanto si suppone derivi dal sostantivo Viteliu in lingua osca, o da vitluf, “vitello”, in lingua umbra, latinizzato poi in vitulus. Secondo altri studi, il termine Italia deriverebbe da un popolo pre-romano primigenio, gli Itali, che si sarebbero dati questo nome per celebrare l’antico uso di divinizzare l’animale totem del clan, il vitello, o in alternativa per definirsi “figli del toro”.

Quando la leggenda diventa realtà

Tutte le ricerche sull’origine del nome Italia convergono verso la certezza storica che, già prima dell’espansione romana, la nostra penisola fu sede di una diffusa attività agro-pastorale caratterizzata dalla prevalente a presenza dei bovini. Secondo lo storico romano Varrone, infatti, l’allevamento ricoprì un ruolo indispensabile anche molto tempo dopo l’introduzione dell’agricoltura, al punto tale che nella memoria legata alla fondazione di Roma, il contesto economico è sempre stato illustrato con forte valenza pastorale, associando i primi re leggendari a “professionisti dell’allevamento”. La stessa nascita di Roma potrebbe essere avvenuta in occasione della festa pastorale dei Palilia, dedicata a Pales, la dea dei pastori e della pastorizia. La figura del pastore ebbe la sua evoluzione nel corso dell’età repubblicana, durante la quale acquisirono rilevanza i patrimoni costituiti da greggi o mandrie di grandi dimensioni, e di conseguenza i loro proprietari divennero personaggi di fondamentale importanza sociale ed economica. Solo nella tarda Repubblica l’allevamento divenne un affare di competenza anche della classe equestre e senatoria. L’importanza dell’allevamento in epoca romana traspare anche grazie a Virgilio, il quale nelle Georgiche descrive i metodi migliori per governare e curare il bestiame di grossa e piccola taglia. Spicca qui la figura del pastore nordafricano, nobilitato dal paragone col legionario romano, che porta con sé tutto ciò che possiede: tenda, focolare, utensili, cane e armi. Serviranno le riforme dei Gracchi per far assestare all’agricoltura il primo vero e duro colpo nei confronti l’allevamento, che tuttavia riuscì comunque a rimanere uno dei pilastri sociali della penisola e a rifiorire, neanche troppo tempo dopo, con la riorganizzazione politica dell’Italia medievale.

A cura di
Giuseppe Pulina
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Carne bovina, la ‘rossa’ per eccellenza: peculiarità nutrizionali.
Nutrizione
20/06/2021
3 min.
Nutrizione

Quando si parla di carne rossa si pensa immediatamente a quella bovina, di manzo, per il suo colore intenso. La composizione della carne bovina italiana è caratterizzata dalla presenza di pochissimi grassi, che variano a seconda della tipologia di animale e di taglio: in media la carne di vitello contiene dall’1 al 2,7% di grassi mentre i tagli del bovino adulto variano dal 3,4% al 7%.

La carne bovina, inoltre, contiene circa il 18-20% di proteine ‘nobili’ (Fonte: INRAN, 2015), intendendo con questa dicitura quelle proteine di qualità superiore che contengono tutti gli amminoacidi essenziali nelle proporzioni tra loro necessarie per un’efficiente sintesi proteica. L’uomo, soprattutto in età pediatrica, ha necessità di assumere tutti gli amminoacidi essenziali in quantità sufficienti al suo fabbisogno, poiché solo così l’organismo sarà in grado di sintetizzare a sua volta tutte le proteine necessarie per il suo corretto sviluppo e funzionamento. Al contrario, le fonti vegetali non contengano singolarmente tutti gli amminoacidi essenziali e solo un loro sapiente mix può fornirne uno spettro completo, ma in ogni caso non hanno quel rapporto in grado di permettere una sintesi proteica altrettanto efficiente, a parità di quantità. Per intenderci, di seguito due esempi di pasti che permettono di assumere la quantità adeguata di amminoacidi essenziali per un adulto:

– 2 piatti di pasta con fagioli (oltre 700 kcal).

– 1 fettina di carne magra da 70 g (77 kcal).

Come si evince, per soddisfare il fabbisogno amminoacidico giornaliero seguendo una dieta esclusivamente a base di vegetali, si rischia facilmente di assumere una quantità molto elevata di calorie. Infine, ricordiamo che le proteine della carne sono facilmente digeribili ed assimilabili in virtù della loro composizione primaria e secondaria, e raramente fonte di allergia. La carne bovina, al di là delle proteine, apporta al nostro organismo una significativa quantità di micronutrienti fondamentali in forma facilmente assimilabile tra i quali ferro, zinco, selenio e vitamina B12.

Il ferro ha l’importante compito di permettere il trasporto dell’ossigeno nell’organismo attraverso il sangue e il suo fabbisogno è particolarmente alto per le donne in età fertile. In Italia, gli adolescenti e soprattutto le adolescenti sono un gruppo esposto a grave rischio di carenza di ferro: le carni rosse rappresentano un alimento particolarmente efficace per la copertura dei fabbisogni. La carne, oltre a fornire ferro eme, quindi facilmente assimilabile, aumenta l’assorbimento anche del ferro non eme, svolgendo quindi una importantissima funzione antianemica

Lo zinco è un componente essenziale di molti enzimi. Svolge un ruolo importante, insieme ad altri minerali, nel metabolismo dell’ormone tiroideo e nei processi di formazione di ossa e muscoli. Ma lo zinco non è importante solo per la crescita: coinvolto in numerosissimi processi biochimici come nel funzionamento del sistema immunitario, nello sviluppo del sistema nervoso, un suo insufficiente apporto può contribuire allo sviluppo di patologie cronico-infiammatorie dell’apparato gastro-intestinale, come il morbo di Crohn. La carne rappresenta la fonte alimentare più importante (circa il 25%) di questo prezioso minerale.

La vitamina B12 è coinvolta in diverse funzioni corporee, soprattutto legate alla funzione nervosa e a quella dei globuli rossi (entra nella formazione dell’emoglobina), alla sintesi degli acidi nucleici e all’utilizzo dei grassi. È importante assumerne una quantità minima ogni giorno, ed è reperibile solo negli alimenti di origine animale.

Il selenio è essenziale per la sintesi della principale molecola antiossidante prodotta dall’organismo vale a dire il glutatione ridotto, interviene nella sintesi degli ormoni tiroidei ed è il principale ostacolo all’accumulo di alcuni metalli pesanti come il mercurio.

A cura di
Luca Piretta
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Cosa succederebbe se non ci fossero più allevamenti in Italia?
Sostenibilità
20/06/2021
6 min.
Sostenibilità

Concepire un mondo senza allevamenti è uno sforzo di immaginazione difficile, ma non impossibile. Le conseguenze potrebbero però alterare la realtà in modo radicale, intaccando un patrimonio economico, sociale e culturale fondamentale per il nostro Paese e minando un equilibrio ambientale e paesaggistico che si regge anche sulla presenza e l’azione dei ruminanti nelle aree geografiche in cui sono da sempre presenti.

Il bovino, perché è importante

La ricchezza che ci regalano i bovini deriva dalla loro capacità di trasformare alimenti che noi non potremmo mai utilizzare, perché ricchi in fibre indigeribili e poveri in principi nutrivi quali i foraggi, in una “montagna” di proteine e di micronutrienti indispensabili al nostro benessere e alla nostra salute. Inoltre, i bovini, in quanto ruminanti, sono capaci di “organicare” l’azoto trasformando molecole tossiche, quali i nitrati di cui sono ricchi i vegetali, in proteine nobili che ritroviamo poi nelle loro carni. Questo processo è possibile perché nel rumine-reticolo alberga una micro-popolazione di batteri, protozoi e funghi capaci di degradare la fibra dei foraggi, per noi totalmente indigeribile, e valorizzarne l’azoto: questi animali si sono evoluti introitando una sorta di brodo primordiale che, in assenza di ossigeno, non consuma completamente la sostanza organica, ma la trasforma a vantaggio dell’ospite che ne trae energia e composti azotati, principalmente proteine, di qualità di gran lunga migliore di quelli presenti nei foraggi ingeriti.

La ‘madre’ di molte filiere

Oltre ai preziosi prodotti principali, la carne e il latte, la cui mancata produzione peserebbe notevolmente sulle tasche degli italiani per l’aggravio dovuto alle importazioni, l’allevamento del bovino è una ricca fonte di co-prodotti e sottoprodotti quali pelle e organi interni che possono essere utilizzati per numerosi altri scopi e in settori diversi.

Ecco alcuni esempi:
– le ossa sono utilizzate per la produzione di mangimi per gli animali da compagnia, ma anche di farine proteiche, fertilizzanti, gelatina per uso alimentare;
– la pelle è utilizzata per la produzione di beni durevoli, ma ecologicamente sostenibili in quanto naturali al contrario dei derivati delle plastiche che devono essere smaltite, quali pellami e cuoio: vitello per articoli di lusso (scarpe, borsette, cinture, ecc), vitellone per settore automotive (sedili delle auto), protezioni per divani e cuoieria per foderare internamente le calzature;
– il grasso viene utilizzato nell’industria cosmetica e chimica (saponi), oltre che per uso zootecnico;
– le cartilagini sono impiegate per la produzione di prodotti alimentari addensanti, nonché per la formulazione di pet food e pet toys;
– le parti grasse bovine sono anche impiegate per la produzione di gelatine, utilizzate in ambito farmaceutico per la preparazione di film utili all’incapsulazione dei farmaci;
– il sangue bovino è impiegato per la produzione di fertilizzanti;
– i tessuti valvolari sono impiegati per la preparazione di dispositivi medici (valvole cardiache);
– le colature grasse, il contenuto ruminale e altri scarti sono utilizzati come fonti rinnovabili per la produzione di energia verde (biometano e calore);
– l’abomaso (l’ultimo dei quattro stomaci dei ruminanti), è impiegato dall’industria casearia per la produzione di caglio (l’unico coagulante permesso per la produzione di formaggi DOP quali, ad esempio, il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano);
Anche gli effluenti prodotti dagli animali sono utili perché impiegati come fertilizzanti agricoli (gli unici consentiti nell’agricoltura biologica) o come fonti di energia rinnovabile, determinando un notevole vantaggio ambientale rispetto alla situazione in cui concimi ed energia vengano prodotti per altre vie ‘convenzionali’.

Per favorire uno smaltimento ‘verde’ di liquami, deiezioni, rifiuti organici, sterpaglie ed altri vegetali provenienti dalle attività di allevamento, le aziende agricole hanno ormai dappertutto costruito piccoli impianti a biogas, i quali producono al tempo stesso energia pulita ed utile per l’auto-alimentazione dell’azienda. Inoltre, il digestato che residua dopo il processo di produzione energetica è un ottimo fertilizzante in quanto le parti altamente solubili delle deiezioni sono state fissate e gli odori sgradevoli, abbattuti. Da questo impiego intelligente degli effluenti zootecnici si ottiene, quindi, nuovo valore rappresentato dall’uso dei derivati delle biomasse (biogas e digestato), nonché dalla loro produzione ecosostenibile. Considerando il valore economico delle produzioni principali e quello di utilizzo di tutta la ‘produzione collaterale’ dell’allevamento (basta menzionare nuovamente l’industria calzaturiera e le pelletterie per farsene facilmente un’idea) diventa palese quanto questo comparto rappresenti una ‘fabbrica di valore’ totalmente ecosostenibile per il Paese e in generale per la società contemporanea.

Una perdita per la cultura

In Italia, la figura dell’allevatore ha accompagnato la storia dell’uomo fin dai suoi albori. Ne abbiamo già parlato qui. Ma non è tutto: l’allevatore, infatti, non è soltanto una persona che conosce i cicli produttivi e riproduttivi degli animali, che li seleziona, li cura, li custodisce e tramanda così un mestiere millenario; è anche colui che sa leggere segni e segnali che un allevamento genera continuamente per interpretarli non solo a proprio favore, ma anche a vantaggio dei propri animali. Il rapporto tra allevatore e ambiente, infatti, è strettissimo, non dissimile da quello che l’agricoltore ha con la propria terra.

La sensibilità e l’attenzione unica alla base di questa professione ha consentito agli allevatori italiani di selezionare e custodire le razze bovine che oggi conosciamo: grazie al loro operato millenario, il nostro Paese può vantare alcune delle più pregiate e rinomate etno-popolazioni, varietà genetiche strettamente legate a un territorio di cui sono diventate espressione. Se non protette e valorizzate, le razze locali sono soggette a forte erosione genetica, rischiando così di scomparire con conseguente grave danno per la perdita di biodiversità, per l’economia e per l’identità del posto.

Una perdita… per l’ambiente e il paesaggio!

In Italia, le razze locali svolgono un ruolo fondamentale per il paesaggio e per l’ambiente. La loro capacità di adattarsi a territori ostili, non utilizzabili convenientemente per le coltivazioni, fa sì che queste svolgano una vera e propria opera di “manutenzione” di queste aree, altrimenti destinate ad essere abbandonate e progressivamente a inselvatichirsi. A titolo di esempio, gli alpeggi e i pascoli montani del nord o le aree rurali in regioni quali la Calabria o la Sicilia, rischierebbero la desertificazione antropica senza l’allevamento delle razze locali.
Il ruolo dei bovini nel mantenimento del paesaggio rurale italiano è, poi, rilevante: con la loro presenza, modellano le forme di oltre 1/3 del territorio rurale, regalandoci il mosaico che caratterizza uno dei principali attrattori turistici del Bel Paese.
In definitiva, si può affermare che gli allevamenti hanno stretto un vero e proprio patto con la natura e con i suoi cicli, un equilibrio che potrebbe essere gravemente compromesso se anche solo uno dei tasselli che lo compongono venisse meno.

A cura di
Giuseppe Pulina
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Cosa significa ‘dieta sostenibile’? Guida pratica per costruire piatti bilanciati e ‘green’.
Nutrizione
20/06/2021
3 min.
Nutrizione

Quando si parla di alimenti e sostenibilità, spesso ci si limita a osservare il minore o maggior impatto di alcune categorie di alimenti rispetto ad altre (emblematico è il caso della carne) senza considerare la dieta nel suo complesso. Questo approccio rischia di far escludere alcuni alimenti (in quanto etichettati come ‘dannosi per l’ambiente’) che, viceversa, se consumati nelle giuste quantità possono avere un ruolo virtuoso in una dieta bilanciata e sostenibile. Tra i tanti errori diffusi al riguardo vi è quello di confrontare l’impatto ambientale di un kg di carne con quello di un kg di frutta e verdura, perché il contenuto dei nutrienti è completamente diverso, così come le quantità di consumo raccomandate, più basse per la carne e molto più alte per i vegetali (1).

Parlando di diete sostenibili non si può non menzionare la Dieta Mediterranea, un modello caratterizzato da una prevalenza di prodotti vegetali, ma che non esclude delle quote di prodotti animali necessarie, senza eccedere, a coprire le inevitabili carenze di un modello completamente vegetale (1). A tal proposito è stata recentemente pubblicata una nuova piramide della Dieta Mediterranea che coniuga gli aspetti nutrizionali del famoso modello alimentare con aspetti di sostenibilità alimentare (2).

Come risultato di un lungo lavoro di revisione e “rimodellamento” della precedente piramide pubblicata nel 2011, la nuova piramide mira ad includere i più recenti risultati relativi all’impatto ambientale del modello mediterraneo. La Dieta Mediterranea, infatti, favorirebbe emissioni di gas serra “controllate”, garantendo il rispetto della stagionalità dei prodotti, del territorio e della biodiversità (2).

Tra le novità della “nuova piramide sostenibile” vi è infatti la presenza, in ciascun livello, di una terza dimensione che rappresenta gli aspetti ambientali e l’impatto specifico di ciascuna categoria di alimenti.

Chi sono i ‘meno sostenibili’? Prodotti industriali, merendine e dolci ricchi in zuccheri e grassi sono quei prodotti presenti al vertice della piramide il cui consumo deve essere limitato a un massimo di 3 volte alla settimana, sia per gli effetti sulla salute sia per il loro impatto sull’ambiente (2). Per gli italiani, quindi, forse sarebbe da rimettere in discussione il modello di colazione ‘dolce’ in modo da limitare il consumo di prodotti di forno, a favore di pane integrale e cereali poco processati come i fiocchi d’avena, ad esempio, in abbinamento a un’adeguata porzione di latte o yogurt. Di certo, quindi, ben più sostenibile era la colazione dei nostri nonni, a base ad esempio di caffellatte e pane raffermo.

Per quanto riguarda il consumo di verdura, frutta fresca e secca, si enfatizza la necessità di scegliere prodotti locali (2): dimentichiamoci quindi della frutta esotica come categoria ‘healthy’ per eccellenza nelle diete più in voga, soprattutto nei contesti urbani, pensando ad esempio agli ultimi anni in cui zenzero, avocado e gli altri cosiddetti ‘superfood’ hanno letteralmente spopolato. Basandoci sulle frequenze di consumo e sugli alimenti consigliati sulla base di questo approccio, largamente condiviso a livello di comunità scientifica e che privilegia il consumo di prodotti freschi, locali e stagionali, proviamo a ipotizzare per la stagione estiva alcuni piatti virtuosi dal punto di vista delle raccomandazioni nutrizionali e… ambientali.

A cura di
Nutrimi
Straccetti di carne marinati con rucola e pomodorini, accompagnati da riso integrale
Ingredienti: 100 g di straccetti di manzo, 50 g di rucola, 100 g di pomodorini
Il commento 'green' del nutrizionista: anche la carne può far parte di una dieta green se consumata in modo equilibrato per quantità e frequenza durante la settimana.
Panzanella
Ingredienti: 100 g di pane raffermo, 70 g di pomodori, 70 g di cetrioli, 30 g di cipolle, aceto 20 g, olio q.b., acqua q.b. basilico q.b.
Il commento 'green' del nutrizionista: la panzanella è un piatto della tradizione che permette il riutilizzo di pane “invecchiato”, riducendo gli sprechi alimentari.
Riso integrale con fave, pecorino e menta
Ingredienti: Ingredienti: 80 g di riso integrale, 150 g di fave fresche, un cucchiaino di pecorino, menta q.b.
Il commento 'green' del nutrizionista: le fave sono un legume tipico della stagione primaverile/estiva. Curiosità: aggiungere un po’ di succo di limone può favorire l’assorbimento del ferro vegetale.
Insalatona di patate, fagiolini, acciughe e olive, accompagnata da un piccolo panino integrale
Ingredienti: 200 g di patate, 200 g di fagiolini, 4 (50 g) acciughe, 8 olive, olio evo
Il commento 'green' del nutrizionista: durante la settimana è consigliato preferire il consumo di pesce fresco azzurro tipico del Mar Mediterraneo, come acciughe e sardine, e consumare quello conservato non più di una volta alla settimana.

Ricapitoliamo quindi qualche trucco e consiglio per orientarci verso un’alimentazione il più possibile ‘green’, oltre che bilanciata:

– Buon senso prima di tutto

Torniamo a scoprire le stagioni, con il loro patrimonio di prodotti, privilegiando sempre quelli del nostro territorio: più vicino, meglio è. In buona sostanza, proviamo a riavvicinarci a quella che era l’alimentazione… dei nostri nonni (3).

– Prepariamo il cibo con le nostre mani (o scegliamolo con la testa)

Cucinare è un’arte, e richiede tempo. Per la maggior parte di noi potrebbe risultare veramente complesso, se non impossibile, preparare ogni giorno ricette salutari a partire da prodotti freschi. Cerchiamo quindi di scegliere consapevolmente anche i piatti che acquistiamo già pronti, al supermercato o al ristorante.

– Scelte radicali? Meglio la moderazione

Quando parliamo di alimenti e sostenibilità vengono subito in mente le diete vegetariane e vegane, in quanto ritenute associate ad un minor impatto ambientale rispetto alle diete onnivore. Non dimentichiamo però che in queste diete, prive in parte o del tutto di prodotti di origine animale, c’è un alto rischio di ricorrere a prodotti sostitutivi di origine vegetale che spesso sono alimenti ultra-processati, con un impatto ambientale elevato. Ad oggi, sulla base dei dati esistenti, preferiamo considerare come modello alimentare di riferimento, sano e sostenibile, la Dieta Mediterranea con il giusto quantitativo di tutti gli alimenti e dando largo spazio a quelli freschi, di stagione e locali.

1. Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (2019). Linee guida per una sana alimentazione 2018
2. Serra-Majem, L., Tomaino, L., Dernini, S., Berry, E. M., Lairon, D., Ngo de la Cruz, J., … & Piscopo, S. (2020). Updating the Mediterranean Diet Pyramid towards Sustainability: Focus on Environmental Con-cerns. International Journal of Environmental Research and Public Health, 17(23), 8758.
3. XIII Forum di Nutrizione Pratica. Verso sistemi alimentari sostenibili: ripartendo dalla tradizione.
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Dieta mediterranea significa ‘onnivora’: una scelta di salute.
Nutrizione
20/06/2021
4 min.
Nutrizione

Tra vegani e vegetariani è molto diffusa e radicata la convinzione che una dieta esclusivamente vegetale sia benefica e possa addirittura favorire la guarigione da presunti disturbi causati dalla dieta onnivora. In realtà, anche sulla base di studi sul cancro che non hanno mostrato particolari differenze nell’incidenza di questa patologia tra vegetariani e non vegetariani, la letteratura suggerisce che lo stato di salute di soggetti vegetariani occidentali non sia affatto migliore di quella degli individui onnivori e, anzi, che sia del tutto comparabile alla salute di chi mangia carne. Il punto chiave si trova nella qualità e nella proporzionalità della dieta onnivora che deve essere ispirata alla dieta mediterranea. Una dieta onnivora sbilanciata infatti può essere tanto pericolosa quanto una dieta eccessivamente privativa.

L’importanza nutrizionale della carne è da ricercare in particolare nel suo apporto di importanti micronutrienti quali ferro, selenio, vitamine A, B12 e acido folico, alcuni dei quali scarsamente rappresentati nel mondo vegetale o comunque poco biodisponibili in queste fonti. Se l’alimentazione vegetariana prevede l’esclusione di tutti gli alimenti carnei dalla dieta, la vegana estende l’esclusione al consumo di qualsiasi derivato animale. In termini di nutrienti, la prima è tipicamente ricca in carboidrati, acidi grassi omega-6, fibra, carotenoidi, acido folico, magnesio, vitamine C ed E, ma, se non ben pianificata da un esperto in nutrizione, tendenzialmente è insufficiente nell’apportare proteine, acidi grassi omega-3 attivi, vitamina B12 e zinco. I vegani, in particolare, possono presentare importanti carenze di vitamina B12 e bassi introiti di calcio, zinco e selenio, e inoltre per far fronte alle necessità proteiche sono costretti ad assumere grandi quantità di cereali e legumi spesso mal tollerate e origine di disturbi gastrointestinali in particolare nei soggetti affetti da sindrome dell’intestino irritabile o di disbiosi intestinale. Se è vero che, grazie alla grande varietà di alimenti a disposizione e di nutrienti che ognuno di essi è in grado di apportare, nessuno di essi è indispensabile alla nostra salute e al nostro benessere, va riconosciuto che il consumo di alcuni alimenti è particolarmente raccomandabile per alcune fasce di popolazione ‘vulnerabili’. Diversi studi volti a indagare lo stato di salute delle popolazioni vegetariane evidenziano un particolare rischio di carenze che può diventare preoccupante per i bambini e donne in gravidanza e allattamento.

La gravidanza rappresenta sicuramente un momento di aumentato fabbisogno di sostanze nutritive, che si riflette anche in una maggiore attenzione da parte della donna alla propria dieta. L’accresciuto fabbisogno di proteine tipico di questa fase della vita può essere soddisfatto attraverso un maggiore introito di alimenti proteici, tra cui le carni. Esse sono in grado di apportare al contempo anche ferro, folati e vitamine B1, B2 e B12, tutte sostanze di cui la donna in stato di gravidanza ha un fabbisogno accresciuto, insieme a calcio e vitamina A, reperibili in diversi altri alimenti di origine animale (come il fegato, il latte o le uova) o vegetale. Il consumo di carne in gravidanza si basa sulla semplice raccomandazione di evitare carne, salumi e altri prodotti animali crudi o poco cotti.
Alcuni studi evidenziano che i bambini allattati al seno da madri vegetariane, soggetti a elevato rischio di iperomocisteinemia (l’elevata concentrazione di omocisteina nel sangue) causata dalla carenza di vitamina B12, siano a rischio di gravi anomalie dello sviluppo, difetti della crescita e anemia. È importante ricordare che l’apporto esclusivo di folati per fronteggiare il rischio dell’iperomocisteinemia nei soggetti che non assumono vitamina B12 è del tutto insufficiente per la comparsa di un fenomeno metabolico chiamato “trappola dei folati”.

Il primo rischio di carenza di nutrienti per il bambino si verifica poi al passaggio dalla fase di allattamento a quella di svezzamento, quando è necessaria una buona dose di ferro altamente biodisponibile. Accrescendo l’assorbimento di ferro, un’aumentata assunzione di carne durante lo svezzamento può prevenire una diminuzione della concentrazione di emoglobina nella tarda infanzia, ovvero la manifestazione dell’anemia. Una nutrizione inadeguata durante l’infanzia è associata a scarsi risultati scolastici e cognitivi a breve termine, mentre l’integrazione alimentare con carne è collegata a un miglioramento cognitivo nell’infanzia. Una carenza multipla di nutrienti quali vitamina B12, tiamina, niacina, zinco e ferro nei bambini è associata a una ridotta performance cognitiva, con conseguenze per la salute che si potrebbero riscontrare anche durante l’età adulta.

A cura di
Luca Piretta
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Bovini, water footprint ed emissioni di CO2: quale l’impatto reale?
Sostenibilità
20/06/2021
6 min.
Sostenibilità

È necessario eliminare la carne dalla propria alimentazione per salvare il pianeta. Gli allevamenti sono i principali responsabili della produzione di metano e quindi dell’inquinamento ambientale. Nulla come gli allevamenti erode risorse naturali e sottrae spazio alle coltivazioni. Le coltivazioni sono di gran lunga più sostenibile dell’allevamento.

Tutte queste frasi altro non sono che luoghi comuni, radicatisi anno dopo anno nella “cultura generale” e che contribuiscono ad alimentare una serie di fake news dannose per i consumatori.

All’origine dell’equivoco

È il 2006 e la FAO pubblica il rapporto “Livestock’s Long Shadow” che per primo porta alla luce il legame tra allevamenti e cambiamento climatico. L’impatto dello studio è enorme: l’opinione pubblica si allarma, associazioni ambientaliste e comunicatori iniziano a connotare negativamente la produzione e il consumo di carne fino ad arrivare a incolpare i bovini per i problemi ambientali perché, stando alla ricerca della FAO, inciderebbero più dei trasporti sul cambiamento climatico e sarebbero responsabili del 18% delle emissioni mondiali di CO2 equivalente.

Le cifre sono così fuori scala che la comunità scientifica si mobilita, rifà i conti e contesta il report mettendone in discussione gli assunti. Fra gli scienziati più attivi si conta Frank Mitloehner, professore della Università della California UC Davis, che ha contestato il primo rapporto evidenziando come la metodologia applicata nel calcolo degli impatti dell’allevamento fosse diversa rispetto al calcolo delle emissioni dei trasporti. Osservazione accolta anche da Pierre Gerber, uno dei ricercatori che lavorarono al rapporto stesso. L’errore? Per gli animali in allevamento sono state calcolate le emissioni di tutto il ciclo produttivo della carne, il cosiddetto Life Cycle Assessment, con uno specifico modello denominato Global Livestock Environmental Assessment Model (GLEAM). In altre parole, hanno sommato le emissioni a partire dalla coltivazione dei cereali per i mangimi, trasformazione e conservazione della carne e il packaging. Per i trasporti, invece, sono state considerate solo le emissioni dei gas di scarico dei mezzi mentre non sono stati calcolati tutti gli impatti derivanti dall’industria automobilistica, navale e aeroportuale necessari alla costruzione dei mezzi stessi (gomma, acciaio, plastica, vetro, estrazione petrolio, ecc.). Questo ha reso il confronto non omogeneo e sbilanciato e soprattutto poco obiettivo, producendo un dato fuorviante e non veritiero. Dopo 7 anni la FAO rilascia un secondo rapporto che ridimensiona gli impatti di tutta la zootecnia mondiale, fissandoli al 14,5% delle emissioni.

Oggi cosa dicono i dati?

Nel 2013 la FAO ha aggiornato lo studio, rivedendo gli impatti mondiali della filiera zootecnica con la pubblicazione del rapporto “Tackling Climate Change through Livestock”, eliminando il confronto con i mezzi di trasporto, ma tenedo sempre l’uso del suolo e il suo cambiamento (aspetto particolarmente critico quando si parla di emissioni per la difficoltà di eseguire calcoli accurati). Il dato relativo alle emissioni dell’allevamento, come detto, è passato dal 18% al 14,5% (media mondiale di tutte le produzioni zootecniche, bovino, pollo, suino, uova e latte, calcolate con il metodo GLEAM). La restante percentuale, che si attesta attorno all’ 80%, è invece imputabile all’utilizzo dei combustibili fossili quali petrolio, carbone e gas impiegata come energia nei trasporti, nell’industria e nel settore residenziale, mentre un 5% è imputato alla produzione di cemento. Anche basando il confronto solo sulle emissioni dirette il rapporto non cambia: gli animali sono responsabili del 5% delle emissioni, mentre i trasporti del 14%.

Le emissioni non sono tutte uguali

A questo punto però qualcuno potrebbe obiettare che sebbene gli allevamenti inquinino decisamente meno rispetto a quello che i più pensano, tuttavia rimangono parte di un sistema inquinante… giusto? Per rispondere è necessario un rapido ripasso delle nostre conoscenze scientifiche di base. Il metano, considerato il principale gas climalterante degli allevamenti, emesso dai bovini e da altri ruminanti (ma anche i cavalli emettono metano e in quantità ridotta, anche l’uomo) fa parte di un ciclo naturale, cosiddetto biogenico, che è molto diverso dall’anidride carbonica immessa in atmosfera dai mezzi di trasporto o dall’industria. Il ciclo inizia dalla crescita dell’erba e dei foraggi utili per alimentare il bovino. Attraverso la fotosintesi, le piante catturano l’anidride carbonica (CO2) dall’aria, producono carboidrati (CHO) e rilasciano ossigeno (O2) in atmosfera. I carboidrati contenente la parte di carbonio naturalmente presente nella pianta (C) sono poi ingeriti dai bovini e lo stesso carbonio, durante la digestione microbica che avviene nel rumine dell’animale, è trasformato in metano (CH4) poi rilasciato nell’aria dagli animali. A differenza delle emissioni derivate dai combustibili fossili e dalla fabbricazione del cemento che negli anni si sono accumulate in atmosfera e vi permarranno per circa mille anni, il metano prodotto dagli allevamenti è riassorbito in tempi rapidi dalle piante e rientra nel ciclo vitale. Infatti, dopo circa dieci anni, il metano atmosferico (CH4) è scomposto in acqua (H2O) e anidride carbonica (CO2): quest’ultima molecola verrà riassorbita proprio dalle piante, le stesse che diventeranno nutrimento per i bovini, per riattivare il ciclo. In sintesi, il carbonio fossile è un carbonio morto che si accumula in atmosfera, quello del metano emesso dai bovini è un carbonio vivo che rientra nel ciclo della vita e non si accumula.

Elaborazione grafica da “Global Dairy Platform 2020”

A proposito di Water Footprint

Tra le critiche rivolte alle filiere zootecniche c’è quella che vede gli allevamenti come sistemi che erodono le risorse idriche del pianeta poiché per produrre 1 kg di carne sarebbero necessari 15.400 litri di acqua. Anche in questo caso, è necessario fare chiarezza. Per prima cosa, è importante precisare che questo impatto è calcolato sommando la cosiddetta “acqua verde” con l’“acqua blu” e l’“acqua grigia”. L’acqua verde è quella piovana, che consente la crescita della vegetazione che nutre le mandrie, e di cui l’uomo non può servirsi. L’acqua blu, invece, è l’acqua prelevata dalla falda o dai corpi idrici superficiali, come fiumi e ruscelli. Infine l’acqua grigia rappresenta il volume d’acqua necessario a diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione. La stragrande maggioranza dell’acqua imputata alle produzioni animali è quella che piove sui vegetali , la cosiddetta acqua verde, che rappresenta il 94% dell’acqua imputata alle filiere bovine. Tutta quest’acqua non è realmente consumata perché evapotraspira nell’atmosfera e ritorna nel ciclo naturale con le precipitazioni. La percentuale di acqua blu “sottratta” alle riserve destinate all’uomo è quindi minima e rappresenta appena il 3% del totale, così come l’acqua grigia che, nel peggiore dei casi (mancanza di depurazione, uso sconsiderato delle deiezioni, sovraconcimazione, uso eccessivo di fitofarmaci) rappresenta appena il 3%. Pertanto, il modo corretto per calcolare l’impronta idrica è quello di considerare l’acqua verde al netto della evapotraspirazione di una vegetazione naturale, ottenendo così l’”acqua verde netta” e, conseguentemente, la water footprint netta.

Elaborazione grafica da “La Sostenibilità delle carni e dei salumi in Italia” edito da FrancoAngeli, 2018

Quali sono gli impatti dell’allevamento bovino in Italia?

In Italia l’allevamento bovino ha un impatto per emission di gas climalteranti pari al 3,7% del totale (rielaborazione su dati ISPRA 2021). In Italia, recenti pubblicazioni scientifiche hanno calcolato il Net Waterfootprint (WFPnet) (Atzori et al., 2016) che per produrre 1 kg di carne bovina risulta, nel caso più virtuoso, pari a 790 litri di acqua. Pertanto, possiamo affermare che per produrre 100 g di carne oggi in Italia si consumano solo 79 litri di acqua nell’ipotesi della migliore utilizzazione dell’oro blu.

A cura di
Giuseppe Pulina